Frammenti di una conversazione con Mario Cresci, il fotografo italiano la cui ricerca artistica sembra non avere limiti. Un autore che si è spinto oltre i confini della camera oscura e ha messo in discussione il ruolo stesso dei professionisti dell’obiettivo.
La ricerca artistica di Mario Cresci, nato a Chiavari nel 1942, iniziava circa mezzo secolo fa. La sua prima dichiarazione d’intenti fu una mostra alla galleria milanese Il Diaframma di Lanfranco Colombo, nel 1969. Anziché incorniciare e appendere le proprie opere come è prassi nella fotografia, le inserì in circa un migliaio di cilindri trasparenti creando in tal modo una vera e propria installazione di arte contemporanea. Era chiaro che non gli apparteneva quello che fino ad allora si era imposto in Italia come l’unico modo di concepire la fotografia, ovverosia l’idea che fosse solamente uno strumento oggettivo al servizio degli studi antropologici e del reportage erede del Neorealismo. Cresci si sentiva più vicino alla scuola del Bauhaus di Walter Gropius e alla sua filiazione americana dell’Illinois Institute of Design, istituti di formazione caratterizzati dal dialogo tra la fotografia e altre discipline quali la grafica editoriale, l’architettura e il design industriale. In occasione di un’altra mostra a Milano, quella attualmente in corso alla Red Lab Gallery in cui la curatrice Gigliola Foschi ha giustapposto ai suoi scatti quelli di Novella Oliana, il fotografo spiega dal suo studio a Bergamo, perché e come ha spinto la propria ricerca artistica oltre lo steccato della fotografia tradizionale.
Formazione sperimentale
Mario Cresci ci racconta che il suo lavoro “nasce a Venezia agli inizi degli Anni Sessanta dentro il contesto formativo dell’Istituto Superiore di Disegno Industriale, una buona scuola di cui non ne esistevano di simili nemmeno a Milano. Infatti venne chiusa nel 1972… La fotografia (insegnata da Italo Zannier) era una delle tante discipline ma non una tra le fondamentali”.
L’autore prosegue, raccontando le origini delle sue scelte autoriali: “Decisi di lavorare alla ricerca fotografica nell’ambito del design e della grafica. Così, mentre studiavo la percezione visiva, la teoria delle forme e la filosofia di Merleau-Ponty mi venne voglia di trasferire questi saperi nell’ambito della fotografia, che allora ruotava attorno ai circoli fotografici. Successivamente la mia osservazione fotografica incontrò la Pop Art americana, alla Biennale del 1964, e il Concettualismo negli Anni Settanta, a Milano”. Quindi già durante la sua formazione, la fotografia sembrava essere in crisi: “La vedevo come un linguaggio e non necessariamente come un terreno di esclusiva pertinenza del fotoreportage. Ero quasi in antitesi a Cartier-Bresson: per me la fotografia si progetta così come si progetta un oggetto. Bisogna guardare il mondo tenendo un occhio alla letteratura, al teatro o al cinema, e non solo allo specifico fotografico. Infatti smonto tutti i generi, non riesco a praticarne uno solo. L’unica eccezione è la fotografia di moda, in cui non mi sono mai cimentato se non una volta a Parigi nel ‘69.
Altre vie
Pur guardando attraverso l’obiettivo, dirigo il mio sguardo in tutte le direzioni”, sostiene Mario Cresci durante la nostra conversazione. Come ad esempio fece con la mostra del 1969, a Il Diaframma. “Da lì in poi il mio rapporto con la fotografia tradizionale si è stemperato sempre di più”. Se ne accorse anche il MoMA di New York, che negli Anni Settanta raccolse alcune sue opere su presentazione dello storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle. “La svolta avvenne quando aprii uno studio di grafica a Matera e incontrai l’antropologia, l’etnografia, la cultura materiale, il mondo contadino. All’epoca tutta l’iconografia meridionale era influenzata dal Neorealismo degli asinelli e delle vecchiette con gli scialli neri e veniva mistificata proprio dai fotografi. Il Sud mi fece capire che la fotografia poteva svilupparsi in un contesto che non fosse solo quello industriale del Nord e lì io ricominciai da capo, coniugando la mia formazione nei campi del design e dell’arte concettuale con la memoria storica e le tradizioni popolari che erano viste in chiave retorica. Feci una rivoluzione visiva per creare una visione che fosse costruttiva, non retorica. Alla fine ho vissuto a Matera circa 20 anni e lì ho anche aperto una scuola”.
Foto di Mario Cresci tratte da “La Casa di Annita”, Bergamo (2003). L’intero progetto riguarda una villetta degli anni Trenta e l tracce lasciate da chi vi abitò.
Insegnare la rivoluzione
Cresci sembra dare molta importanza alla questione della formazione in istituti specializzati: ha infatti insegnato in varie scuole e accademie e a Bergamo ha diretto per dieci anni l’Accademia G. Carrara di Belle Arti. “Bisogna fare un lavoro di sensibilizzazione”, spiega l’autore. “Incastrare arte antica, moderna e contemporanea con la fotografia. Io ho lavorato molto anche come grafico e trovo che grafica e fotografia siano linguaggi in sinergia tra loro”. Come si evince anche dal suo ultimo libro, non a caso intitolato Segni migranti. Storie di grafica e fotografia. “I miei studenti stanno capendo questo e spesso presentano tesi di laurea che contemplano le due conoscenze. Si rendono conto che la fotografia non è più quella con cui ero cresciuto io. Novella Oliana viene proprio da questa cultura. La mostra Fra noi e le cose nasce come anello di congiunzione con una generazione, la sua, molto più distante dalla mia, ma il cui pensiero è simile. Uno dei problemi di fondo della fotografia italiana è che alcuni miei colleghi mettono il digitale in opposizione all’analogico. Il contributo mio e di Novella è sottolineare che il contenuto conta più di tale contrapposizione. Oggi si pratica la fotografia nelle riviste, nei libri e nelle mostre, ma non solo lì. Perché si possono anche pensare lavori site-specific, workshop, progetti che coinvolgono intere comunità. Modalità che vanno oltre il territorio della fotografia ed entrano in quelli del pensiero e della conoscenza. È questo il futuro della fotografia”.
Foto di Novella Oliana, dal lavoro “Hypothèse d’île” (2019).
Foto di Novella Oliana, dal lavoro “Limiti del visibile”.
Le fotografie contenute in questo articolo fanno parte della mostra Mario Cresci e Novella Oliana. Fra noi e le cose
Titolo Segni Migranti. Storie di grafica e fotografia
Lingua italiano
Formato 21x27cm
Pagine 624
Prezzo 55 euro
Tiratura 2000 copie
ISBN 978-88-31363-05-1
Editore Postcart