Dagli inizi del XXI secondo Pierpaolo Mittica si è dedicato costantemente al racconto dell’ambiente, dell’emergenza climatica, e dei danni causati dall’uomo agendo sulla superfice terrestre. Per Living Toxic, progetto iniziato nel 2011 con un viaggio a Fukushima (Giappone), è andato numerose volte in Russia, in Cina, in Ucraina e in Kazakhstan.
In questi luoghi ha documentato paesaggi desolanti, persone che continuano a vivere nelle zone radioattive perché non hanno un’alternativa, animali domestici diventati selvatici dopo la dipartita dell’uomo dalle città evacuate, una natura che colma i vuoti prima antropizzati con tutto il suo straripante vigore. Mittica cerca i luoghi più contaminati della Terra e li inserisce nella sua lista di luoghi da visitare, una mappa che, nel tempo, mantiene monitorato lo stato di salute del globo, o per meglio dire il suo stato di alienazione.
Living toxic è un progetto in corso d’opera iniziato nel 2011. Come nasce?
Dal 2002 ho iniziato ad occuparmi della tematica ambientale, documentando Chernobyl, e nello specifico mi sono concentrato sulla rappresentazione di come l’uomo agisca distruttivamente sul Pianeta. In quel momento non si parlava ancora molto di cambiamento climatico, fortunatamente ora le cose sono cambiate e il tema è molto dibattuto. Nel 2011, poi, sono andato a Fukushima e ho iniziato a pensare ad un progetto più ampio sui luoghi più contaminati ed inquinati al mondo. Ho stilato una lista dei posti dove sarei voluto andare e da lì sono partito. La lista è molto lunga, per ora i luoghi che ho visitato sono sette, come anche i capitoli del progetto: Fukushima in Giappone, Mayak, Magnitogorsk e Karabash in Russia, poi, Chernobyl in Ucraina, Wuhai in Cina e Semipalatinsk in Kazakhstan.
“Il Kazakistan paga ancora il prezzo dei test nucleari sovietici”. Video realizzato da Pierpaolo Mittica e Alessandro Tesei per Internazionale.
Il capitolo di Living Toxic dedicato a Chernobyl consiste nella documentazione raccolta nel tuo viaggio del 2002?
Il viaggio a Chernobyl del 2002, seguito da altri fino al 2007, mi ha dato lo stimolo iniziale per concentrarmi sulle tematiche ambientali. Quella documentazione è confluita nella pubblicazione di un libro, Chernobyl: The Hidden Legacy, pubblicato nel 2007 dall’editore Trolley. Per Living Toxic, invece, sono tornato dal 2014 al 2019, per una seconda documentazione.
Riscontri delle differenze di approccio e di narrazione tra i due lavori?
Il mio approccio giornalistico è stato più o meno simile, è cambiato il linguaggio però. La prima documentazione, per il libro, era in bianco e nero e in pellicola, mentre Living Toxic è un progetto uniformemente a colori, le cui immagini sono state realizzate in digitale. Penso che il colore, per come è si evoluto il mio modo di raccontare il mondo, aggiunga qualcosa alla narrazione. Fukushima, il primo capitolo del progetto, l’ho pensato e realizzato inizialmente in bianco e nero, ma poi mi sono accorto che la progettualità dell’intero lavoro rendeva meglio a colori e così l’ho modificato.
E come è evoluta la progettualità di Living Toxic?
Diciamo che è evoluta dopo essere stato a Fukushima. La consapevolezza del progetto l’ho messa a fuoco soprattutto durante i capitoli in Russia, a Mayak, Magnitogorsk, Karabash. Lì è nata la vera idea del progetto. Il viaggio a Fukushima l’ho vissuto come un lavoro a parte, che poi ho comunque voluto inserire. Ci sono andato, inizialmente, come conseguenza alla documentazione che avevo fatto a Chernobyl, mi sembravano due storie molto attinenti. Mentre in Russia sono partito con un’idea di progettualità più estesa e che abbracciasse più luoghi.
In Living Toxic gestisci tre variabili di focus: il ritratto delle persone, le ambientazioni e la natura. Descriveresti i capitoli del progetto in base a come hai inserito questi tre elementi?
Da questo punto di vista, penso che Fukushima sia un lavoro molto equilibrato, dove i tre elementi dialogano strettamente, forse anche perché è uno dei capitoli più vasti e in cui mi sono immerso maggiormente, con quattro viaggi e due anni di lavoro. Inoltre, per il primo capitolo ho lavorato molto anche con le interviste alla popolazione e questa modalità di narrazione e di indagine mi ha fatto fare tantissimi ritratti alle persone con cui parlavo. A Fukushima, come anche a Semipalatinsk, ho prodotto anche molti video, ulteriore modalità narrativa del lavoro giornalistico.
Altri lavori, come quelli su Magnitogorsk o Karabash, sono più metaforici perché il paesaggio lì era predominante e creava degli scenari metafisici. Era il paesaggio a raccontare la storia, non servivano ritratti a persone. La devastazione di quei luoghi li aveva resi talmente surreali da creare delle composizioni astratte. A Mayak, come è stato anche a Fukushima, ho lavorato con il video e le interviste, per questo motivo ho prodotto molti ritratti..
Oltretutto lì il paesaggio è molto meno incisivo, lo sono di più le storie delle persone. In Cina, invece, alla miniera di carbone, ho proseguito con una certa attenzione paesaggistica, perché le tracce della devastazione sui luoghi è l’elemento rilevante. La più grande difficoltà di questo lavoro è rendere manifesta l’azione invisibile della radioattività, che ho potuto cogliere unicamente come conseguenze sul territorio e sui corpi delle persone.
Pierpaolo Mittica presenta il progetto del libro “Chernobyl”. Il video è stato confezionato prima della conclusione della campagna di crowdfunding lanciata dall’autore, il cui esito positivo ha consentito la pubblicazione del volume nel 2024.
Da questo punto di vista, infatti, il capitolo su Chernobyl è, forse, quello più completo, mostrando anche le conseguenze fisiche delle radiazioni sulla popolazione…
Sì, talmente completo che pur facendo parte di Living Toxic lo considero come un progetto a sé stante. Ne è uscito da poco un libro, Chernobyl, pubblicato con Gost Book. È una storia raccontata in sei anni, mentre negli altri luoghi ero solito andare una sola volta e rimanere più o meno un mese, ad eccezione di Fukushima, dove sono tornato per quattro anni. Quindi è probabile che la complessità narrativa di cui parli tu vada in parallelo con la mia volontà di investire maggiori energie e tempo nel raccontare quel luogo e le sue storie.
Da una parte racconti dello spopolamento umano, dall’altra mostri come la natura si riappropria degli spazi un tempo antropizzati. Una particolare immagine mi incuriosisce, quella del lupo che appare, forse casualmente, davanti al tuo obiettivo. Ce la racconti?
Si quella è un’immagine che documenta la situazione a Chernobyl e si tratta di un cane randagio, lasciato a sé stesso dopo che, probabilmente, i suoi padroni sono stati fatti evacuare dalla città. L’inselvatichimento è il destino di molti animali che vivevano nei pressi di Chernobyl. In riferimento a quell’immagine specifica, ero davanti a un supermarket e stavo aspettando la mia guida. Nel frattempo, avevo deciso di fotografare la città e mi ero abbassato per cogliere il riflesso di una pozzanghera, quando il cane si è avvicinato a me e si è posizionato davanti all’obiettivo. Per me gli elementi di disturbo sono arricchenti in un’immagine: in quella fotografia particolare gli occhi del cane che guardano in camera arrivano dritti all’osservatore, carichi di un significato che mille paesaggi non potranno avere mai.
Immagino che per una questione di sicurezza tu abbia una particolare attrezzatura con te…
Sì, certo. Viaggio sempre con un contatore Geiger [dispositivo di misurazione delle radiazioni, n.d.r.], con un abbigliamento di protezione, quando richiesto, e accompagnato da guide locali che conoscono restrizioni e situazioni di radioattività. Così cerco di ridurre i rischi.
E per quanto riguarda la strumentazione fotografica?
Ovviamente lavoro molto leggero. Uso una mirrorless Sony A7RV, che utilizzo sia come fotocamera che come videocamera. Generalmente, quando sono sul campo, porto con me un corpo macchina e un obiettivo, in alcuni casi il drone e un Osmo Pocket che mi serve per determinate riprese.
Rispetto al dolore di queste situazioni, il tuo sguardo è quello di un testimone o lo intendi come uno sguardo partecipativo?
Io cerco di raccontare delle storie nella maniera più obiettiva possibile, con la consapevolezza che in fotografia l’oggettività assoluta non esiste. Mi faccio muovere dall’etica e dalla correttezza di intenti e questo approccio, in un certo senso, mi rende ‘super partes’ rispetto alla storia.
La struttura di Living Toxic è una struttura documentaria, dove le fotografie sono intese come documenti, ma non mancano immagini emotive, quelle in cui mi sono lasciato coinvolgere dalla situazione. Nella complessità narrativa ci deve essere lo spazio per tutto, in un ritmo che va dal racconto emozionale alla pausa che descrive il contesto.
Questo tipo di schema progettuale ti facilita la fase iniziale del lavoro?
Sì certo, è come in una ricetta, so quante immagini d’ambiente occorreranno, quanti ritratti, quante fotografie più emozionali, quante invece serviranno a creare delle pause. Quando inizio un progetto nuovo ho già una sorta di sceneggiatura tra le mani e pianifico sempre tutto prima, la mia mente è già all’editing finale. Poi ovviamente ci sono gli imprevisti e, come ti dicevo prima, le ‘casualità’ le accetto come un valore aggiunto.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Pierpaolo Mittica sono disponibili sul suo sito pierpaolomittica.com.
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