Ambiguità, suspense, illuminazione drammatica, trame poliziesche, angolazioni di ripresa particolari, chiaroscuri marcati: tutti ingredienti che appartengono tanto al cinema noir degli anni ’40 e ’50, quanto alla fotografia di Kevin Bennett Moore. Dalle evidenti influenze “shermaniane”, la produzione di Moore fa pensare, però, anche agli iconici film di Wes Anderson, anche lui spesso ossessionato dai colori saturi, dai paradossi visivi e dal direzionare lo sguardo dello spettatore attraverso l’incursione nella scena di dispositivi ottici o particolari mascherature. Per capire il processo creativo dell’autore lo abbiamo intervistato relativamente a due suoi particolari lavori: Safe in my Garden e Untitled Characters.
Le storie che metti in scena evocano spesso ambientazioni sospese, misteriose e inquietanti. Da dove nasce questa tua ricerca?
Molte scene sono ispirate al cinema americano di metà Novecento. Apprezzo molto il mistero e la suspense che caratterizzano questo periodo cinematografico e cerco di evocare la stessa sensazione nel mio lavoro. Che si tratti dell’illuminazione o dell’espressione, sono sempre interessato al modo in cui la suspense lascia viaggiare la mente. Quando costruisco un’immagine, è importante, per me, pensarla come un fermo immagine estratto dal movimento, sperando di trasmettere il senso di ciò che è accaduto prima e di ciò che verrà dopo.
Ci racconti nello specifico di Safe in my Garden e Untitled Characters?
Quando è iniziata la pandemia mi sono dedicato ad autoritratti molto focalizzati. Untitled Characters è nato, quindi, come un modo per passare il tempo, creando immagini, durante l’isolamento a casa.
Poco dopo ho iniziato Safe in my Garden, sempre ispirato al mio tempo passato a casa e a quello che provavo in quel momento. Inizialmente, il lavoro traeva spunto dalle mie estati trascorse da bambino, ma, in seguito, ha iniziato a trasformarsi in una sorta di meditazione sul senso di isolamento.
Le scene si basano sulla mia esperienza personale di persona queer in America, utilizzando il vernacolo del passato per distinguerlo dal tempo presente. Trovo questo aspetto del lavoro molto importante perché non ho mai voluto farlo apparire come un progetto documentaristico della mia vita, ma piuttosto una narrazione costruita che allude a qualcos’altro.
Spesso compaiono in scena dispositivi ottici o personaggi che compiono azioni relative all’atto di guardare. Perché?
Quando realizzo immagini, voglio sempre che l’osservatore vada oltre il visibile, lasciando spesso la narrazione aperta all’interpretazione. L’uso di dispositivi ottici, o la presentazione delle scene attraverso un binocolo, mi permettono di guidare chi guarda le mie immagini senza rivelare troppo. Includere elementi come quelli che citavi tu mi restituisce un po’ di controllo sulla narrazione, forzando una prospettiva nelle immagini.
Qual è il processo creativo che ti porta alla realizzazione di un progetto? Lavori da solo o ti avvali di un team?
Il processo creativo inizia sempre con una versione abbozzata dell’immagine finale. Illuminazione, styling, personaggi e location sono tutti elementi che confluiscono in questo schizzo, che produco mesi o anche anni prima della realizzazione dell’immagine. Il più delle volte la realizzo, dall’inizio alla fine, da solo, tuttavia, alcune produzioni sono troppo grandi per non avvalersi del supporto di qualcuno, in quel caso chiedo l’aiuto di amici e familiari.
Pensando alla progettualità del lavoro e a come portarla avanti, di solito, cerco di realizzare immagini che ritengo possano funzionare insieme, per guidare una narrazione uniforme.
Durante il processo di realizzazione, sono costantemente proiettato all’immagine successiva e a come ciascuna fotografia interagisca con le altre.
Decidere quando un progetto può considerarsi completo è una questione di sensazioni. Se inizio a sentire che non c’è altro da dire o che il mio messaggio è chiaro nelle immagini che già ho, considero il progetto terminato. In generale, finora, ho sempre realizzato lavori che avessero un tema o un messaggio simile, ma la storia o il modo di comunicare attorno a quel tema può cambiare in base al progetto.
Le luci dei tuoi lavori sono usate in maniera molto cinematografica. Come le gestisci?
Ispirandomi al cinema americano di metà XX secolo. L’utilizzo di una luce cinematografica è parte integrante del mio lavoro. Non ho un budget elevato per le mie immagini, quindi spesso utilizzo solo una fonte di luce continua o due flash, a seconda dell’immagine.
Chi o cosa ha influenzato maggiormente la creazione del tuo stile?
Sono cresciuto nella casa che era di mia nonna, sfogliando vecchie foto di lei e istantanee della sua vita negli anni ’60 e ’70. Non avendola mai conosciuta, ho iniziato a ricostruire la sua persona attraverso immagini e storie. Ho scoperto che gran parte dell’influenza a cui attingo per i miei lavori deriva dal suo fascino e dal periodo catturato nelle immagini di lei che ho trovato a casa sua. Da lì ho iniziato a indagare più a fondo la vita nell’America di metà del XX secolo. Glorificando quegli anni d’oro, volevo in un certo senso inserire la mia figura, con la mia storia, in quella scena. Utilizzando l’estetica del passato per trattare temi più attuali, sono stato in grado di usare l’influenza di mia nonna per raccontare le mie storie.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Kevin Bennett Moore sono disponibili sul sito del fotografo: kevinbennettmoore.com.
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