Si può pensare a un modo non stereotipato di intendere la mascolinità? Josh Aronson, nel suo bellissimo progetto Florida Boys, lo fa decostruendo lo stereotipo dell’uomo americano, forte, macho, etero, bianco. Le sue immagini sono fotografie corali di un’affettività tutta al maschile, dove la compattezza dei corpi e la loro prossimità, emozionale oltre che fisica, risulta àncora di un’iconografia che prende spunto dalla tradizione folkloristica e dalle memorie fotografiche della Florida. Abbiamo fatto due chiacchere con Josh per farci raccontare la sua idea di fotografia, oltre al suo Florida Boys.
Come ti sei avvicinato alla fotografia?
Mi sono avvicinato alla fotografia tramite Facebook. Alla fine degli anni 2000 usavo una macchina fotografica economica per ritrarre i miei amici. Scattavo ritratti durante le feste e immortalavo piccoli momenti delle nostre vite. Ciò che mi piaceva davvero era mettere in dialogo quelle immagini, creando degli album sul social network. Passavo notti a progettare le copertine, scrivere titoli, editare immagini scattate nel corso dei mesi in un unico gruppo. È stato un primo esercizio di scrittura e editing.
Sono rimasto affascinato da come la fotografia potesse plasmare la percezione di una vita, un luogo, o una comunità da parte dello spettatore. Quell’istinto di costruire significato attraverso l’accumulo e la cura mi accompagna da allora. Oggi lavoro ancora in questo modo, collezionando immagini nel corso degli anni per poi pubblicarle come un unico corpus di opere coeso. Quei primi album su Facebook erano innocenti, ma mi hanno insegnato come le immagini possano costruire mondi.
Ci racconti nello specifico il dietro le quinte di un lavoro come Tropicana, un progetto pieno di colori brillanti e di un vivido senso di “leggerezza”?
Tropicana è nato come qualcosa che avevo bisogno di realizzare per me stesso, dopo anni di lavori su commissione. Vivevo a New York, fotografavo per marchi e riviste, e sentivo il bisogno di tornare a casa, nel sud della Florida. Per diversi mesi ho fatto lunghi viaggi a Miami, fotografando amici, artisti e attivisti della comunità locale. Quelle sessioni si sono evolute in Tropicana, la mia prima fanzine.
L’opera immagina una Florida fantastica, vibrante, giocosa, utopica, dove le persone sperimentano una connessione tra di loro e con il paesaggio. È stata concepita come una contro-narrazione al modo in cui la Florida viene solitamente rappresentata: caotica, conservatrice, sensazionalistica. Attraverso il colore, la luce e l’intimità, volevo mostrare una Florida diversa. Una Florida tenera, gioiosa e inclusiva.
Recentemente hai prodotto un lavoro autoriale intitolato Florida Boys. Come nasce questo progetto e come è evoluto?
È iniziato tutto durante la pandemia. Ero tornato a Miami, irrequieto e ingabbiato, e avevo iniziato a fare viaggi on the road attraverso le zone rurali della Florida settentrionale e centrale per realizzare nuovi lavori. Ho reclutato giovani ragazzi, la maggior parte dei quali sconosciuti, spesso americani di prima generazione come me, e li ho invitati a partecipare. Insieme abbiamo esplorato sorgenti, ruscelli e foreste, luoghi che ci sembravano estranei pur facendo parte del nostro paese d’origine. Ci siamo arrampicati sugli alberi, ci siamo tuffati nei fiumi, ci siamo persi su strade sterrate. Per molti dei miei collaboratori, è stata la prima esperienza con i paesaggi selvaggi della Florida.
Quei viaggi sono diventati le fondamenta di Florida Boys. Il progetto reinterpreta il classico film di formazione americano (ragazzi nella natura, alla scoperta della libertà), ma sostituisce i soliti protagonisti con una serie più ampia e complessa di personaggi: ragazzi neri e ispanici, ragazzi queer, sognatori e vagabondi. Non sto cercando di cancellare il mito americano, sto cercando di espanderlo, di infondergli tenerezza, curiosità e stranezza. Attraverso queste scene staged in cui collaboro con i soggetti, sto costruendo una versione di mascolinità che mi sembra più vicina alla mia.
Ogni immagine sembra un tableau vivant, la messa in scena di una performance collettiva. Come le tue fotografie si avvalgono di un concetto più esteso di arte contemporanea?
Per me, arte contemporanea non significa solo produrre oggetti, significa generare dialogo e comunità. La fotografia è l’artefatto, ma l’opera include anche tutto ciò che la circonda: le relazioni, i viaggi, le installazioni, le conversazioni. Quando andiamo in viaggio con i ‘Florida Boys’, il viaggio stesso diventa parte dell’opera d’arte: i partecipanti vivono la performance dell’amicizia, della ribellione, della tenerezza. La macchina fotografica semplicemente fissa la forma.
Quando espongo, penso all’immagine come a un oggetto fotografico site-specific: carta, supporto e cornice cambiano a seconda del luogo in cui la fotografia viene esposta. Di solito scelgo tra stampa su PVC, alluminio, carta o tessuto, e decido se includere o meno una finitura smaltata a seconda della luce. Queste decisioni rafforzano la sensazione che l’opera non sia statica, ma che si adatti al suo ambiente, proprio come i ragazzi e io ci adattiamo al nostro.
Per i rimandi al cinema, alla performance, alla pittura, Florida Boys, per certi aspetti, ricorda le immagini di Jeff Wall. Chi sono stati i tuoi riferimenti per produrlo?
Jeff Wall è certamente un giusto riferimento, fondatore della fotografia narrativa inscenata. Ma il mio processo è più intimo e seriale. Lavoro quasi interamente da solo o con un assistente, costruendo le scene attraverso la ricerca e la collaborazione piuttosto che con le troupe di produzione.
Le radici del mio modo di fotografare risalgono più a Justine Kurland: il suo Girl Pictures mi ha profondamente influenzato. Oltretutto sono stato invitato a esporre le prime stampe di Florida Boys nel suo studio di Brooklyn. Il lavoro di Ryan McGinley è stato, per me, altrettanto importante, e il suo senso di libertà e giovinezza ha plasmato il mio primo pensiero sulla fotografia.
Il mio immaginario attinge anche dal patrimonio culturale della Florida: i dipinti dei Florida Highwaymen, il folklore sulla ‘scimmia puzzola’ e la fotografia documentaria conservata sul sito della Biblioteca e Archivi di Stato della Florida (www.floridamemory.com). Poi, ancora, i pittori del XIX e XX secolo come Eakins, Wyeth, Renoir, Fischl; film come I 400 colpi e Stand By Me. E, naturalmente, fotografi del Sud come Gordon Parks, Baldwin Lee, Marion Post Wolcott e Walker Evans. Nel mio lavoro questi mondi si sovrappongono: il cinematografico, il pittorico, il folcloristico e il documentario, così come il personale.
Le immagini del progetto sono, nella maggior parte dei casi, immagini corali. I ragazzi che hai coinvolto sono attori? Come li hai diretti?
Nessuno di loro è un attore. Sono artisti, musicisti, stilisti. Persone che ho trovato su Instagram, spesso amici di amici. Cerco persone con un forte senso di appartenenza alla Florida o che mi ricordino una qualche versione di me stesso. A volte arrivo preparato con schizzi o storyboard, ma una volta sul posto, lascio che le cose vadano come devono andare.
Capita che chieda a qualcuno di arrampicarsi su un albero, o semplicemente di fermarsi e respirare, ma ciò che funziona meglio è quello che accade quando tutti dimenticano le mie indicazioni e iniziano a giocare. Lo slittamento tra intenzione e casualità è il luogo in cui vive la mia fotografia. I miei collaboratori partecipano con i loro gesti, i loro stati d’animo e il loro umorismo, io seguo le loro iniziative e le immagini diventano finzioni collettive, nate dall’improvvisazione di una giornata trascorsa insieme all’aria aperta.
Quanto in Florida Boys c’è della tua storia personale?
Moltissimo. Sono figlio di immigrati, cresciuto in Florida senza una famiglia allargata. Per questo mi sono sempre sentito un po’ isolato. Molte delle persone che fotografo condividono questa storia.
Inoltre, non corrispondo con le idee tradizionali di mascolinità: l’archetipo sportivo e stoico. Attraverso la fotografia costruisco un mondo popolato da uomini curiosi, gentili e aperti. In questo senso, il mio lavoro è semi-autobiografico, i ragazzi sono surrogati di me stesso, di chi ero, di chi sono e di chi avrei voluto che esistesse intorno a me. Scattare queste foto è un modo per immaginare un senso di appartenenza, e poi materializzarlo.
Il tuo progetto racconta, in un certo senso, di una “mascolinità possibile”, portatrice anche di fragilità e sensibilità. Come hai tradotto, visivamente, questo elemento?
Attraverso la presenza, più che la performance; attraverso la postura dei ragazzi, il modo in cui si tengono per mano, gli abiti, dalle divise scolastiche ai jeans, ai gioielli che brillano alla luce del sole. La macchina fotografica non è lì per coglierli mentre si comportano da duri, è lì per testimoniare la calma, la fiducia e la cura. Anche quando entra in campo la messa in scena, i gesti sono reali, appartengono al momento in cui qualcuno si lascia andare ed è solo sé stesso.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Josh Aronson sono disponibili sul sito del fotografo josharonson.us.
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