Nel tuo linguaggio è chiaro il filo diretto che congiunge il tuo modo di fotografare al cinema. Ce ne parli?
L’esperienza sui set cinematografici come fotografo di scena, prima, e in seguito la formazione come direttore della fotografia mi hanno permesso di acquisire una conoscenza più approfondita delle tecniche di ripresa cinematografica e della gestione delle luci continue. Tutto questo l’ho messo in pratica sui miei set fotografici. Ho sempre avuto un debole per il cinema, ancor prima della fotografia. Mi sarebbe piaciuto diventare regista, ma le strade della mia vita hanno preso altre direzioni.
L’apporto delle luci per la tua produzione fotografica è molto importante. Delinea quello che è il tuo linguaggio. Da dove trae origine questo tuo interesse e come si è evoluto nel tempo?
La luce crea l’atmosfera, comunica stati d’animo, emozioni. È il filo conduttore tra il mio modo di vedere e la situazione da rappresentare che restituisco al pubblico attraverso una gestione ad hoc della luce artificiale o naturale. Tecnicamente, prediligo l’uso delle luci continue. La tecnologia ormai è avanzata dal punto di vista dell’illuminazione. Personalmente uso dei tubi led RGB e per quanto riguarda la luce principale mi affido a un led da 400W; su questo monto anche una lente addizionale 2x Fresnel se voglio aumentare la potenza e chiudere la luce in uno spot concentrato sul soggetto, mentre per il controluce utilizzo un led da 85W. Le luci poi vengono schermate da bandiere e filtri.
Sto sperimentando una tecnica a rimbalzo in collaborazione con la Lightbridge (Cine Reflect Lighting System). Questo sistema è veramente interessante, mi permette di avere una resa naturale della luce che spesso è difficile da riprodurre tramite luce continua diretta o flash.
Per fotografare uso due corpi: un sistema medio formato digitale Hasselblad con obiettivi 45 e 65mm per lavori artistici e ricerche personali e, per tutto il resto, una Canon Eos R5. Nei viaggi uso una
piccola Ricoh GR.
Chi sono i tuoi maestri e come ti hanno influenzato?
Ce ne sono molti, non solo fotografici: Todd Hido, Alec Soth, Alex Prager, Gregory Crewdson. Ma non posso non citare David Lynch, i fratelli Coen, il grande Emmanuel Lubezki, il Maestro Luca Bigazzi, i racconti di Stephen King, le musiche dei Pink Floyd…
"Covid", uno dei tuoi ultimi lavori si compone delle riprese delle telecamere sparse in tutto il mondo. Ci spieghi come l’hai prodotto e come si inserisce nella tua produzione fotografica, solitamente molto più “staged”?
È un lavoro che nasce nel periodo della pandemia, quando il mondo era congelato in un limbo surreale. Volevo raccontare cosa succedeva e ho utilizzato le riprese delle webcam meteo, di sicurezza e di sorveglianza, per monitorare continuamente il mondo dalla mia postazione domestica, estrapolando gli scenari che più mi interessavano. Il mio obiettivo era quello di raccontare quel periodo visto da un “occhio” tecnologico, quindi distaccato dal contesto, non filtrato dal sentire umano. Nella parte finale del progetto ho aggiunto la mia visione attraverso un processo artistico/creativo di “crop”, conversione in bianco e nero e rielaborazione, dando ai fotogrammi selezionati dal flusso delle riprese la mia visione onirica sugli effetti della pandemia nel mondo.
"Wrestling" è uno dei tuoi pochi progetti in bianco e nero. Perché questo cambiamento e come lo hai prodotto?
Questo progetto è stato realizzato nelle periferie di alcune città italiane. Il wrestling è uno spettacolo interessante che nel nostro paese si muove strizzando l’occhio ai cugini americani, ma con un seguito e una forza economica molto limitati. Questa miscela però ha restituito a tale sport/messa in scena una dimensione umana che mi è piaciuta molto. Ho visto tanta passione, allenamento e costanza negli atleti. Molti giovani si avvicinano al wrestling con grande interesse ed è un bene perché molti adolescenti sono distratti dalla tecnologia e tendenzialmente non svolgono più molta attività fisica. Inoltre, questo sport può diventare una porta che unisce il passato degli anni Ottanta ai giorni nostri. La scelta del bianco e nero è stata naturale: volevo “asciugare” le foto del colore, della spettacolarità esasperata, delle distrazioni, mantenendo solo i momenti salienti delle performance, esaltare le atmosfere e la fisicità dei protagonisti.