Bolgna
Dal 25 gennaio all’11 aprile 2024
“Cosa pensi della caccia? Mangi carne? Uccideresti un topo?”: Julia Mejnertsen, fotografa danese classe 1983, incalza il suo pubblico con le domande esplicite che ha posto a sé stessa nel corso di un progetto a lungo termine durato undici anni, intitolato HUN. Partendo dalla relazione con sua madre, grande appassionata di caccia, l’autrice avvia una riflessione personale su una delle tematiche più controverse della nostra epoca. La sua ricerca lascia tracce visive, segni intriganti seppure difficilmente decodificabili, raccolti in un libro di imminente pubblicazione.
HUN interroga, stimola, mette in discussione interi sistemi culturali e getta luce sull’influenza dei legami familiari e interpersonali nella definizione del pensiero e dell’identità di ciascun individuo.
Il progetto è in mostra fino all’11 aprile presso Spazio Labo’, a Bologna, nell’ambito di Art City 2024. Abbiamo intervistato Julia Mejnersten a proposito del suo lavoro.
Partiamo dal titolo del progetto: cosa significa?
Hun è il pronome lei in danese, ma nel caso del mio progetto si riferisce anche alla parola inglese, hunter [cacciatore/cacciatrice, n.d.r.]. Dal mio punto di vista Lei è mia madre, sono io, è la matriarca di un gruppo di elefanti, è Madre Natura.
Tua madre è una cacciatrice professionista?
No, caccia solo per piacere.
Com’è nata l’idea del tuo lavoro?
Ho visitato lo Zimbabwe [Africa, n.d.r.] per la prima volta nel 2012. Da quel viaggio è nato il mio desiderio di abbandonare la carriera in ambito marketing per intraprenderne una nel campo della fotografia. Da quello stesso viaggio è germinata l’idea di HUN. Il progetto ha avuto molti nomi nel corso della sua vita e ha assunto la sua forma attuale solo tre anni fa, quando sono entrata in contatto con il curatore Sergio Valenzuela Escobedo e il designer Ricardo Baez, che mi hanno aiutata a sviluppare il lavoro.
Già nel 2005, però, un episodio aveva stimolato il mio desiderio di intraprendere un percorso di ricerca sui temi portanti di HUN: in un documentario trasmesso dalla televisione nazionale danese avevo sentito mia madre pronunciare la seguente frase: ‘La caccia è diventata la mia passione, non ne ho mai abbastanza. Cacciare il primo animale non è proprio come partorire la prima volta, ma ci si avvicina molto…’.
Tu cosa pensi della caccia?
Ci tengo a sottolineare che HUN non riguarda la mia opinione personale sulla caccia, ed è piuttosto un amalgama di tutte le domande che mi sono posta sul tema nel corso degli anni, senza trovare risposte scontate. Mi rendo conto che il progetto sarebbe più facile da decodificare se affermassi di essere favorevole o contraria alla caccia, ma se fosse stato semplice per me prendere una posizione il lavoro non sarebbe stato altrettanto interessante. La forza di HUN sta nell’ambivalenza e nella complessità delle numerose domande che sorgono, e mi auguro che le persone lo comprendano, provando a dare le proprie risposte.
Intendi domande simili a quelle che poni esplicitamente al lettore in una serie di pagine del tuo libro?
Sì, esattamente quelle, sebbene siano solo la punta dell’iceberg. Mi sono chiesta molte volte cosa spinga una persona a provare piacere nella pressione di un grilletto che provoca la morte di un animale. Mi sono chiesta perché consideriamo gli elefanti migliori dei maiali, perché le persone occidentali si sentano in diritto di avere opinioni sul modo in cui le nazioni africane gestiscono la loro fauna selvatica, o di andare a uccidere degli animali per puro piacere, solo perché le loro disponibilità economiche glielo permettono. Mi chiedo se il denaro possa davvero comprare qualsiasi cosa. Tante domande, dunque, che generano altre domande e pochissime risposte.
Ti andrebbe di scegliere una delle domande che poni nel libro e raccontarci se e come la tua risposta è mutata nel tempo?
Scelgo la mia domanda ‘Ti piace andare allo zoo?’. Non mi piace andare allo zoo, ma quando ho dovuto fotografarlo per il progetto, ho capito perché piace alla gente, alle famiglie. Non saprei dire se questo giustifica la reclusione nei recinti e la monotona routine degli animali. Certo è che rimuovendo uno strato alla volta, domande apparentemente semplici si fanno complesse. Gli animali di un bioparco probabilmente non hanno mai conosciuto una vita diversa, e a questo aspetto va aggiunto il fatto che molti programmi di ricerca e insegnamento rendono gli zoo delle strutture preziose.
Mi domando se il trattamento riservato agli animali di un bioparco sia migliore o peggiore rispetto alla caccia di un animale in Zimbabwe che ha vissuto tutta la sua vita in natura e non conosce il motivo per cui viene ucciso. Non so rispondere, non mi sento di giudicare. So che se potessi scegliere eviterei entrambe le cose, ma la realtà è che il mondo non funziona così. Dunque, la mia risposta è cambiata nel tempo, da un no risoluto a un’opinione meno netta, a più livelli.
Su cosa si basa il tuo pensiero a proposito della caccia?
Ho basato questo progetto sugli ultimi dodici anni di esperienza di caccia grossa, come osservatrice. Come donna occidentale, proveniente da un Paese molto piccolo, con solo lo 0,5% di natura selvaggia, ho avuto pochissimi contatti con la natura e la fauna selvatica nel corso della mia vita. Viaggiare nella savana selvaggia e non recintata dell’Africa meridionale mi ha aperto gli occhi e sconvolto la mente, cambiando il mio modo di approcciarmi alle cose di cui so ben poco. È miope pensare che il modo in cui le persone fanno qualcosa sia lo stesso in tutto il mondo.
Su cosa hai puntato la fotocamera? Descriveresti qualche tuo scatto?
Ho scattato per undici anni e si può dire che il progetto contiene anche il mio intero percorso di maturazione fotografica. Ho prodotto molto materiale, dagli still life digitali di fiori (che ora non fanno parte del progetto) agli intensi scatti in bianco e nero di carne in decomposizione. All’inizio ero molto interessata alle nature morte scattate in digitale, ma man mano che crescevo come fotografa, cresceva anche il mio interesse per le immagini. Ora sono molto attratta dalle texture e – essendo stata a caccia – sono affascinata dal sangue, dalle interiora, dalla carne. So che non sono soggetti adatti a chiunque, ma non posso nascondere che hanno catturato la mia attenzione perché non ero abituata a vederli. Non sapevo che il sangue fosse di un rosso così intenso.
Mi affascina anche il bisogno dell’uomo di costruire paesaggi artificiali e alcuni dei miei scatti preferiti provengono dal Museo Zoologico e dallo Zoo di Copenaghen, dove si possono vedere i paesaggi costruiti che emulano gli habitat naturali. Uno dei miei soggetti preferiti di sempre, però, è il cucciolo di elefante nel recinto interno dello zoo. Mi rende triste, ma allo stesso tempo è in linea con lo scopo del progetto, perché mi fa ragionare sulla mia tendenza a trasferire sentimenti umani sugli animali. In fin dei conti, non so se quell’elefante sia triste o se gli elefanti siano in grado di provare tristezza. La fotografia in questione mi piace anche per via della macchia sulla parete in fondo che sembra proprio un elefante.
Come ha reagito tua madre al progetto?
Mia madre ha capito che non si tratta di un progetto che vuole glorificare lei o la sua attività, e nemmeno il contrario. Ha compreso che si tratta di una storia personale di scoperta di sé, ma anche che lei è il contenitore usato per raccontare questa storia e il pennello usato per dipingere il quadro generale di HUN, nel bene e nel male. Per certi versi si sente distante dal progetto, per altri ne è molto orgogliosa.
La fotografia, in qualche modo, ha avuto effetti sul vostro rapporto?
Lo ha rafforzato. Abbiamo avuto la fortuna di condividere esperienze che poche persone condividono e l’ho vista in situazioni in cui raramente gli altri vedono un genitore, imparando a conoscerla molto meglio come persona e come donna, oltre che come madre.
La tua fotografia esplora le connessioni familiari e non solo…
Hun è basato su un rapporto madre-figlia, e include anche disegni di mia nipote, fotografie d’archivio scattate da mio padre e da mia nonna, alcune scattate con la vecchia OM-1 di mio padre. Quindi, in questo senso, è davvero un affare di famiglia. Tuttavia, quando parlo di legami familiari, intendo far riflettere le persone sui legami a cui normalmente non pensiamo: i nostri legami reciproci come esseri umani, ma anche con la natura e la fauna selvatica. Siamo solo una piccola parte di un grande (eco)sistema, ma stiamo trascurando questo legame e, così facendo, stiamo lentamente rovinando il nostro stesso habitat. Il modo in cui abbiamo strutturato le società occidentali viene considerato un modello a cui aspirare nonostante la sua tendenza a trascurare il contatto con la natura. A mio avviso questo non è affatto un bene.
HUN è la prima indagine fotografica di Mejnertsen. Nel 2023, il dummy del libro ha vinto il Fiebre Dummy Award e ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria del LUMA Rencontres Dummy Book Award di Arles. Nello stesso anno Mejnertsen è stata inserita nella shortlist del Kassel Dummy Award, dell’Images Vevey Book Award e del FE+SK Book Award. Il progetto HUN sarà pubblicato dalla casa editrice madrilena Dalpine nel 2024.
Julia Mejnertsen. HUN
- A cura di Laura De Marco
- Spazio Labo’ | Photography, Strada Maggiore, 29 – Bologna
- dal 25 gennaio all’11 aprile 2024
- lunedì-venerdì 16-19
- ingresso gratuito
- spaziolabo.it