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Home CULTURA INTERVISTE

George Tatge

Tobia Donà di Tobia Donà
1 Giugno 2020
in INTERVISTE
George Tatge

"Nuova edilizia" (Battipaglia, 2015). Un magistrale scatto d’architettura evidenzia il particolare sistema a mosaico dei parapetti colorati dell’edificio.

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“Il caso è uno degli elementi propri della fotografia, uno dei più belli. Quando fotografo, libero la testa da ogni preoccupazione, è come entrare in trance, per permettermi di essere pronto e consapevole di ciò che potrebbe capitare sulla mia strada”. Parola di George Tatge.

George Tatge è nato nel 1951, da madre italiana e padre americano. Ha trascorso l’adolescenza tra l’Europa e il Medio Oriente prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Laureato in letteratura inglese, incominciò a studiare fotografia prima di trasferirsi in Italia, nel 1973, anno della sua prima mostra alla galleria Il Diaframma di Milano. Da allora ha esposto le sue fotografie in America e in Europa, in sedi istituzionali quali la George Eastman House di Rochester e la Maison Européenne de la Photographie di Parigi. Sin dal principio ha scattato solo in bianco e nero, utilizzando dapprima una Nikon e successivamente un banco ottico Deardorff 13x18cm, per immortalare, oltre che le persone, anche i luoghi come entità viventi, comparabili anch’essi a un organismo in perpetua evoluzione. Dal 1986 al 2003 George Tatge sarà il dirigente tecnicofotografico della Alinari. “È stato un onore immenso dirigere la Fratelli Alinari di Firenze – racconta George a proposito di questa lunga esperienza – conoscevo questo nome già prima di venire in Italia. Ho avuto modo di lavorare a tanti progetti e scattare un’enormità di immagini nelle situazioni più disparate. È come essere uscito vivo da una guerra. Dopo, niente ti può fare paura. Lì dentro c’è tutta la storia d’Italia, della sua cultura e dei suoi costumi”.

"Quattro falchi" (Poggibonsi, 2012). Una barriera acustica diventa cornice e punto di vista privilegiato per descrivere una periferia urbana.
Come ti sei avvicinato alla fotografia?

A quattordici anni mia madre mi ha regalato la sua Agfa a telemetro, per lei era troppo complicata, e un amico mi ha prestato il suo ingranditore. Ma la svolta importante è avvenuta all’università, dove conobbi Michael Simon, il mio insegnante di fotografia, un ebreo ungherese sfuggito alle persecuzioni naziste e poi comuniste. Dopo i suoi corsi siamo diventati amici e tuttora lo sento spesso dalla sua casa nascosta nelle foreste del Maine.

"Ginori" (Pietrasanta, 2015). Le delicate ceramiche che rivestono la facciata dell’ex colonia estiva Richard Ginori, ora in totale stato di abbandono, testimoniano il cambiamento dei costumi e dell’economia del nostro Paese dagli anni Cinquanta ad oggi.
Per molti anni hai utilizzato esclusivamente il bianco e nero.

Il bianco e nero attua una trasformazione metaforica della realtà, ed è questo che maggiormente mi interessa nella fotografia. Cerco di intravedere l’invisibile, i segni e i simboli nascosti, i riflessi della mia psiche. Amo molto la camera oscura e il controllo totale sui risultati. Per gran parte della mia carriera l’utilizzo del colore era sempre troppo approssimativo. C’era poco controllo degli esiti e la sua stabilità nel tempo era un grosso problema. Basta vedere oggi come il tempo ha cambiato le stampe a colori di Luigi Ghirri o di William Eggleston.

Quanto la letteratura ha ispirato la tua fotografia?

Tutte le arti sono per me un’ispirazione, e quando ho due ore libere preferisco visitare una mostra di pittura piuttosto che di fotografia. M’ispira e mi insegna di più. Il mio primo amore è comunque la letteratura. Penso che il mondo immaginifico dei romanzi e delle poesie possa aprire i nostri occhi al mondo intorno a noi aiutandoci a percepire dettagli e sottigliezze su cui magari avremmo sorvolato. Penso che nutrire la mente nutra lo sguardo, e imparare ad apprezzare una frase eccezionale e capire ciò che la rende tale, può affinare anche l’occhio. Spingo da sempre i miei allievi alla lettura.

"Night Club" (Veneto, 2014). Lo scorrere del tempo e i cambiamenti sociali sono evidenziati dall’intervento di maquillage sulle facciate di vecchi edifici degli anni Settanta destinati oggi a ospitare un grande night club del nord-est d’Italia.
Ti sei sentito uno “straniero” nei tanti Paesi dove hai vissuto?

Sì, mi sono sempre sentito un po’ straniero. Non solo per i tanti Paesi in cui ho vissuto da bambino ma anche semplicemente per quello straniamento esistenziale che Albert Camus ha così ben descritto. Siamo soli in questo mondo. Il luogo in cui ti trovi è sempre temporaneo, anche se si tratta di una permanenza lunga anni. Sei di passaggio. La costante sei tu. Il fotografo vive una vita solitaria e quindi è bene che impari a sopportare o, meglio, apprezzare la propria compagnia.

Che rapporto c’è tra le tue esperienze di vita internazionali e la fotografia?

Aver viaggiato tanto è sempre una ricchezza. Ho dovuto confrontarmi con tante razze e con tante culture e ciò mi ha reso una persona molto aperta e disponibile. Questo aiuta sempre quando devi fotografare. Spesso, la parte più difficile di una fotografia è arrivarci, superando ostacoli e diffidenze.

Hai lavorato sempre a singoli progetti?

A meno che non parliamo di committenze, non lavoro a progetti. Cito sempre uno dei miei pittori preferiti, Gerhard Richter: “Non seguo alcun obiettivo, nessun sistema, nessuna tendenza. Non ho un programma, né uno stile, né una direzione. Mi piace l’indefinito, la sconfinatezza. Mi piace l’incertezza continua”.

Due situazioni differenti all’occhio del fotografo divengono l’occasione per realizzare immagini dal sapore surrealista, come la rivendita di frutta in una strada di Chioggia e l’istallazione di un artista nel centro storico di Livorno.
Lavori con il banco ottico e la pellicola piana, hai nostalgia della fotografia del passato?

È una macchina meravigliosa, compatta, leggera, versatile, e soprattutto lenta. Costringe a uno sguardo attento e decisivo. Mi piace comporre l’immagine irrazionale su un vetro smerigliato. Sei costretto a lavorare alla composizione, ai pesi e alle sorprese che appaiono e che magari non avevi notato. Mi piace aggiustare le linee prospettiche e le questioni di fuoco e profondità sulla macchina piuttosto che al computer. Certo, le pellicole e lo sviluppo costano, ma sono estremamente selettivo e non scatto molto. Mi piace perfino l’attesa di vedere le pellicole sviluppate. Una sorta di maturazione dell’immagine nella quale rivivo le decisioni, le scelte, le motivazioni in un colloquio continuo con me stesso.

"Nuova edilizia" (Battipaglia, 2015). Un magistrale scatto d’architettura evidenzia il particolare sistema a mosaico dei parapetti colorati dell’edificio.
Che cosa pensi dell’interesse che vi è oggi verso la fotografia e del mondo che vi ruota attorno?

Non vorrei apparire snob ma, per la verità, non guardo riviste e non seguo i social. È che mi sembra di perdere tempo preziosissimo. In generale credo che la qualità delle immagini si stia progressivamente abbassando: i fotografi di architettura consegnano immagini con le linee storte, quando è così semplice correggerle con Photoshop! E i redattori non sanno neanche riconoscere il problema. Mi imbarazza il narcisismo dilagante. È tutto così autoreferenziale che non si riesce a fotografare un monumento, un paesaggio, un angolo di strada senza mettere sé stessi al centro della fotografia. E pensare che si potrebbero scattare dei capolavori con i telefonini.

Ci parli della scelta di lavorare con il colore?

Per i miei lavori personali non avevo mai usato il colore, sino al 2011. Ho visitato una mostra di Odilon Redon al Grand Palais, a Parigi. L’artista ha realizzato solo litografie in bianco e nero sino ai sessant’anni quando ha iniziato a utilizzare i colori. Mi sono girato verso mia madre – è stato l’ultimo viaggio fatto insieme – e ho detto ‘Forse un tentativo lo dovrei fare, no?’. Appena tornato in Italia, ho comprato la prima scatola di pellicole a colori. Questo ha richiesto una rivoluzione dello sguardo, non più attratto dalle luci, dai contrasti, dalle forme, bensì dal puro cromatismo.

Due fotografie realizzate presso le aziende che si occupano del riciclo dei capi usati attraverso la loro trasformazione in nuovo prodotto filato. I così detti cenciaioli riescono a riconoscere le varie tipologie di tessuto con un rapido tocco delle mani, separandoli per tipo e per colore.
A cosa stai lavorando?

In questo momento sto lavorando a un incarico del MAXXI di Roma, mi hanno chiesto di fotografare le piazze vuote per un progetto chiamato Italia, un racconto silenzioso. Lo sto scattando in digitale perché non c’è il tempo per la pellicola.

Che consigli ti senti di dare a chi vorrebbe intraprende la carriera di fotografo?

Ho sempre vissuto di fotografia e ho dovuto adattarmi a tante richieste diverse: reportage, still life, industriale, riproduzione, documentazione. Ma devo sottolineare che ogni passo importante della mia carriera è avvenuto grazie alle immagini di ricerca personale. Sono quelle che hanno colpito le persone e hanno fatto scattare i vari inviti a partecipare a mostre, libri, campagne e incarichi significativi. Consiglio quindi di lavorare per sé stessi, leggere, visitare mostre, studiare. E posare per qualche ora il cellulare.

Le fotografie contenute in questo articolo sono tratte dalla recente mostra George Tatge. Il colore del caso

  • Palazzo Fabroni (PT)
  • 30 novembre 2019-16 febbraio 2020
  • musei.comune.pistoia.it

Bio

George Tatge, fotografo (ma anche giornalista e scrittore) è nato a Istanbul nel 1951. La sua prima mostra in Italia si è tenuta nel 1973, presso la nota galleria Il Diaframma di Milano, diretta da Lanfranco Colombo. Da allora ha presentato mostre in America e in Europa e le sue opere fanno parte di numerose collezioni, tra cui quella della George Eastman House di Rochester, dello Houston Museum of Fine Arts, del Centre Canadien d’Architecture a Montréal, della Helmut Gernsheim Collection a Mannheim e della Maison Européenne de la Pho-tographie di Parigi. Tra le mostre più importanti: The American Academy, Roma, 1981, São Paulo, in Brasile, 1988, Biennale di Venezia, 1995, Museo Peggy Guggenheim, Venezia 2005, MAXXI Roma, 2007. Dal 1986 al 2003 è stato dirigente tecni-co-fotografico della Fratelli Alinari di Firenze. Nel 2010 gli è stato assegnato il Premio Friuli Venezia Giulia per la Fotografia. Vive a Firenze.

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Tags: George Tatge
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