Secondo West Safari di Francesco Aglieri Rinella sembra che del West americano rimangano solo i fantasmi di un immaginario che ha creato la fortuna del Paese a stelle e strisce. Presenze e assenze, geometrie, luci, tracce di un qualcosa che richiama un tempo passato, una tradizione che arriva dalla letteratura, dal cinema, dalla stessa fotografia, e che Francesco riesce a cogliere con un moto lento dello sguardo, osservando, indagando. L’uomo è definito in base ai suoi segni all’interno del paesaggio, ma anche questi segni appartengono a un’era che sembra non solo passata, ma trapassata. Abbiamo fatto due chiacchere con Francesco per farci raccontare il suo viaggio americano.
Come nasce West Safari e come ti sei mosso sul campo per produrlo?
West Safari nasce da due viaggi distinti negli Stati Uniti occidentali, entrambi nel 2022. Il primo si è svolto nel mese di maggio, il secondo a novembre. In totale ho trascorso sul campo 33 giorni, percorrendo oltre 15.000 chilometri attraverso territori del Southwest e del West continentale, lontani dai grandi centri iconici e dalle rotte più fotografate.
Il progetto non è nato come un road trip spettacolare, ma come un attraversamento lento e metodico. Mi sono mosso spesso in solitaria, seguendo strade secondarie, cittadine marginali, infrastrutture minori. Non esisteva una mappa rigida, ma una serie di punti di attrazione che lasciavano spazio all’imprevisto e alla deriva. West Safari si è costruito come una sedimentazione di esperienze, dove ogni spostamento aggiungeva uno strato visivo e temporale al precedente, più vicino a un lavoro di osservazione che a una narrazione lineare.
Perché definire “Safari” il viaggio verso il West?
Il termine ‘Safari’ viene usato in modo volutamente ambiguo. Tradizionalmente indica un’esplorazione di territori percepiti come altri, ma nel contesto di West Safari assume un significato più complesso. Il fotografo si trova in una posizione intermedia, immerso in un territorio che è già stato profondamente trasformato e che continua a mutare costantemente. Il ‘Safari’ diventa, quindi, un’esperienza dinamica, mai neutra, in un paesaggio che non è un’entità fissa. Nei miei lavori passati, come in quelli più recenti, lo stesso luogo cambia continuamente. Nessun fotografo inquadra mai davvero la stessa cosa. Ogni immagine è il risultato di un incontro temporaneo tra uno sguardo e un territorio in trasformazione. In questo senso, West Safari non documenta un West immobile, ma un processo continuo di mutazione.
Quanto permane della tradizione letteraria di Kerouac e fotografica di Robert Frank?
Il legame con Kerouac e con Robert Frank è profondo, soprattutto per il mio amore per l’idea di On the Road, che si ritrova nell’omonimo libro, e per la vita in strada raccontata dalla Beat Generation. Un immaginario che è stato fortemente idolatrato e rilanciato nel tempo, anche grazie al cinema e alle arti visive, influenzando in modo decisivo chi, come me, è cresciuto negli anni Novanta. Allo stesso tempo, il mio rapporto con quella tradizione è consapevolmente postumo. Se per Kerouac il viaggio era una promessa di libertà e per Frank un mezzo per svelare le contraddizioni dell’America, in West Safari il movimento è più silenzioso, quasi ripetitivo. Rimane l’attenzione al margine e all’esperienza diretta, ma privata dell’urgenza generazionale. È uno sguardo che arriva dopo il mito, quando la strada è già stata percorsa infinite volte e restano solo alcune tracce.
Il progetto sembra seguire riferimenti come i New Topographics, Eggleston, Meyerowitz o Walker Evans, ma il tuo West appare come uno scenario di resti e archeologie.
I riferimenti sono presenti, soprattutto nel modo di intendere il paesaggio come documento e come struttura visiva. Tuttavia, mentre i New Topographics osservavano una contemporaneità in formazione e ancora acerba nella visione fotografica, io mi confronto con una realtà già stratificata, quasi fossilizzata. Il West che fotografo è fatto di infrastrutture che hanno perso la loro funzione originaria, di edifici che resistono più per inerzia che per necessità. È un paesaggio che assomiglia a un archivio a cielo aperto, dove ogni elemento è una traccia di qualcosa che è già avvenuto.
Dov’è il tuo sguardo in un immaginario che si alimenta di autocitazioni e cartoline di sé stesso?
Il mio sguardo si colloca in una zona di frizione. Non cerco di smontare l’iconografia del West, ma nemmeno di celebrarla. Mi interessa osservare cosa resta quando l’immagine iconica si svuota della sua funzione simbolica. Cerco di evitare i punti di vista spettacolari e preferisco luoghi che sembrano non voler essere fotografati, quasi ai margini dei suddetti. West Safari è anche un lavoro di sottrazione, di riduzione dell’enfasi visiva e della celebrazione del banale.
Da dove nasce la tua fascinazione per questo immaginario americano?
Nasce dalla distanza. L’America mi è arrivata prima come immagine che come esperienza diretta, attraverso cinema, fotografia e letteratura. Una volta vissuta sul posto, quell’immaginario si rivela fragile e pieno di crepe. La mia fascinazione nasce proprio da questo scarto tra ciò che l’America promette visivamente e ciò che mostra quando viene attraversata lentamente. C’è sempre una storia da scoprire, attraverso un’indagine visiva che la fotografia aiuta a sviluppare e a comprendere. Nel corso degli anni questo interesse si è rivelato rigenerante e mai noioso, come dimostrano anche i miei numerosi ritorni in quella terra.
Immagino che durante il viaggio tu abbia avuto molti incontri. Perché la figura umana non compare mai?
La figura umana è assente ma costantemente evocata. Ogni edificio, strada o oggetto è una conseguenza diretta di una presenza umana. Ho scelto nello specifico, in questo progetto, di non includere persone per evitare una lettura narrativa o psicologica immediata. L’assenza lascia spazio all’immaginazione e trasforma il paesaggio in una forma di ritratto indiretto.
In mezzo a un costante sguardo sul paesaggio antropizzato c’è un’unica immagine che si concentra su un paesaggio esclusivamente naturale, quella di un canyon. In che modo quella fotografia si inserisce nel tuo lavoro?
Quella fotografia funziona come una soglia. È l’unico momento in cui il lavoro si confronta con un paesaggio apparentemente incontaminato. Non è un ritorno al sublime romantico, ma una pausa, un vuoto all’interno della sequenza. Serve a ricordare che anche il paesaggio naturale, nel West, è ormai parte di una costruzione culturale.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Francesco Aglieri Rinella sono disponibili sul sito del fotografo www.francescoaglieri.com.
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