Dal 2001 Colin Pantall ha focalizzato la sua produzione fotografica su una specifica area tematica: il racconto della sua famiglia, di sua figlia, dell’essere genitore, della sensibilità intima e privata che viene condivisa tra le pareti di casa. Del tema familiare il fotografo affronta anche l’evoluzione dal punto di vista narrativo e storico, indagando la modalità dell’album di famiglia, e comprendendo come la sua resa contemporanea sia l’evoluzione di formule che arrivano dal passato della storia della fotografia, ma anche dal suo stesso passato. Abbiamo intervistato Colin per sapere di più del suo lavoro.
Da tempo ti dedichi ad un tipo di fotografia che si focalizza sul concetto di “famiglia” e “casa”. Da dove nasce questa tua ricerca?
Questo tipo di ricerca nasce dalla necessità pragmatica di dover restare vicino a casa dopo la nascita di nostra figlia nel 2001. Prima di allora viaggiavamo molto e usavo la fotografia per storie di viaggio e per raccontare l’ambiente. Negli ultimi decenni, invece, mi sono dedicato alla rappresentazione dell’infanzia, della famiglia, della maternità. Mentre vivevo io stesso quella dimensione, le immagini che producevo riportavano a galla anche il mio essere stato bambino, cosa che mi ha permesso di rivivere le emozioni intense di quell’età, di fantasticare e di ricordare anche le sensazioni di assenza e isolamento infantile. Solo ora, però, sto iniziando a elaborare alcune delle immagini che ho realizzato.
Ronald Laing una volta disse: ‘La famiglia può essere immaginata come una ragnatela, un fiore, una tomba, una prigione o un castello’. Uso spesso questa citazione nelle mie lezioni. Una volta uno studente mi ha detto che la sua famiglia era come un’ortica: nutriente, aveva dei bei fiori, ma pungeva. Questa sua analogia riassumeva, perfettamente, la stratificazione dell’identità familiare: l’amore, il conforto e la gioia, ma anche i rancori, le disfunzioni, l’abuso, oltre ai non detti e a ciò che viene nascosto.
German Family Album si compone delle fotografie dell’album della famiglia di tua madre, immagini che ne scansionano capillarmente le attività, nella Germania degli anni ’20. Quella raccolta è stata una specie di matrice per il tuo lavoro?
Mi hanno regalato gli album di quello che sarebbe diventato German Family Album qualche anno fa e sono rimasto sbalordito dal modo in cui le storie personali si mescolano ai classici tropi degli album di famiglia e all’ascesa del partito nazista. Però penso che sia il mio altro corpus di immagini, quello iniziato dal 2001, la matrice di German Family Album, inserito successivamente.
Fin dalle origini, infatti, il mio pensiero fotografico ha indagato la fragilità emotiva della vita familiare, la claustrofobia, la perdita di sé, la lotta per l’identità. Tutto ciò è evidente anche in German Family Album, nel matrimonio disfunzionale dei miei nonni, nell’amore segreto di mia nonna per lo zio Bund, nel suo suicidio. L’album porta alla luce narrazioni familiari inattendibili e, in parallelo, l’ascesa del nazismo e la funzionalità stessa dell’album di famiglia.
Se dovessi definire l’inizio della tua ricerca con un’immagine, quale sarebbe? Sia temporalmente, sia concettualmente…
L’immagine di Katherine che mi mostra il test di gravidanza. Lo ricordo bene. Abbiamo deciso molto presto di provare ad avere un figlio. Avevamo 38 anni, eravamo “al verde” e credo che entrambi avessimo pensato che ci sarebbe voluto un po’. Ma non è stato così. Nel suo viso si può leggere eccitazione, ma anche timore, in un certo senso. Quello è stato il punto di partenza, in assoluto, temporale e concettuale, emotivo e fisico. È stata una grande esplosione di realtà.
Nel 1991 al MoMA di New York Peter Galassi curava la mostra Pleasures and terrors of domestic comfort, una collettiva che segnò un punto di svolta per la ricerca fotografica che da qualche anno osservava la vita domestica dall’interno, mentre si iniziava a conferire il valore di “opera d’arte” anche alle fotografie di famiglia. Quanto ti ha influenzato la ricerca dei fotografi che parteciparono a quella mostra?
Mi piacerebbe rivedere quella mostra, ripensata e riadattata ai giorni nostri. Sarebbe interessante vedere cosa ne sarebbe escluso e cosa vi sarebbe aggiunto. Tra gli autori di quell’esposizione ci sono fotografi fenomenali e tanti di loro mi hanno influenzato, in modi diversi: Larry Sultan per le sue dinamiche familiari, Mary Frey per le sue didascalie, la rappresentazione della diversità di classe sociale evidente soprattutto nel lavoro di Tina Barney, il tema ripetuto delle famiglie che guardano le fotografie di famiglia e l’uso di tavoli, divani e tappeti nelle composizioni.
Il racconto fotografico da una prospettiva interna alla casa, effettivamente, viene usato più spesso ultimamente, ma penso che il suo valore artistico venga ancora messo in discussione, soprattutto rispetto ai lavori che rappresentano il mondo esterno.
Spesso nei tuoi lavori ti avvali della rappresentazione di un concetto di tempo che racconta il cambiamento, la crescita, l’evoluzione, come in Sofa Portraits. Ci racconti quel progetto?
In Sofa Portraits ho fotografato un divano, o meglio, ho fotografato quello che succedeva su quel divano, dal giorno in cui ci siamo trasferiti nell’appartamento di Grosvenor Place 12, a Bath, in Inghilterra. Lo trovammo già lì, ad aspettarci. Per noi era affascinante, ma stava cadendo a pezzi: c’erano fili che pendevano, era macchiato, le molle erano rotte, non c’erano cuscini adatti. Su quel divano, Isabel, mia figlia, guardava la TV e io mi sedevo con lei. La osservavo mentre scivolava nel mondo dei sogni a occhi aperti e mi ci identificavo perché anch’io sognavo a occhi aperti da bambino.
Così ho iniziato a fotografarla. Guardava la TV quando era stanca, quando tornava da scuola, o da una gita nei boschi o al parco, o quando era malata. Abitava quello spazio fisicamente ed emotivamente. Su quel divano la si vede crescere, passare le stagioni, attraverso i cambiamenti della luce, dell’abbigliamento, del suo umore. Quando siamo andati via l’impronta del suo corpo è rimasta impressa su quel divano. Nella progressione delle immagini di Sofa Portraits Isabel diventa una persona nuova, ma dentro di lei permane la fragilità dell’infanzia.
In che modo i lavori come Brexit Pictures o TV Personalities si ricollegano all’intimismo di progetti come All Quiet on the Home Front o Bath?
Penso che soprattutto TV Personalities sia ricollegabile al mio immaginario più intimista. Il filo rosso che congiunge tutte le immagini di questo progetto è la tragedia dell’11 settembre e le sue conseguenze. Avvenne quando Isabel era una bambina. Vedeva tutti questi volti al telegiornale: Saddam Hussein, Osama Bin Laden, George Bush, Tony Blair, terroristi a caso, le foto di Abu Ghraib, Guantanamo Bay.
Facevano parte del momento storico, ma, attraverso la televisione, facevano parte anche della casa e del nostro contesto di vita. Per questo motivo li ho ritratti attraverso lo schermo televisivo. Quell’immaginario ci fece da sfondo durante la crescita di nostra figlia e, di conseguenza, durante il mio lavoro. In German Family Album, ad esempio, c’era un silente scenario di svastiche e militarizzazione; l’attacco alle Torri Gemelle ebbe, per la mia produzione di immagini iniziata nel 2001, la stessa funzione.
In Broken Camera Pictures inserisci nella tua estetica familiare gli errori prodotti dalle tue macchine fotografiche rotte. Come il manifestarsi di quegli errori è entrato a far parte della tua ricerca sul concetto di “famiglia” e “casa”?
Non compravo mai macchine fotografiche nuove, non avevo i soldi necessari, quindi arrangiavo o aggiustavo artigianalmente quelle che avevo. Una di queste macchine aveva il dorso allentato, che tenevo fermo con un pezzo di spago, in modo che la pellicola scorresse. Però, se il filo non era abbastanza teso, la pellicola scivolava e si ottenevano delle doppie esposizioni, quelle di Broken Camera Pictures, per l’appunto. La loro particolarità non era un’aggiunta artificiale, era legata al mondo di cui facevano parte, alla nostra storia familiare. Il risultato fu casuale, ma si inserì perfettamente nella mia estetica.
Come la rappresentazione dei concetti di “casa” e “famiglia” è evoluta nella nostra contemporaneità?
La cosa grandiosa della fotografia di oggi è che, in tutti gli ambiti, i generi si stanno sgretolando, le voci si stanno diversificando e nuove narrazioni stanno emergendo. Ci sono persone che raccontano storie sulla famiglia in modi diversi, incorporando espressioni diverse, stati d’animo diversi, materiali diversi. Questa eterogeneità ci aiuta a capire chi siamo, da dove veniamo, le famiglie di cui facciamo parte, i bambini di cui ci prendiamo cura. Per darti dei riferimenti concreti in merito all’eclettismo di questo periodo storico, c’è la fisicità dei corpi di Lisa Sorgini, l’uso del paesaggio e del dolore personale di Dawn Rodgers in Sorrow, il trauma de L’Amoureuse di Anne de Gelas e molti altri ancora.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Colin Pantall sono disponibili sul sito colinpantall.com.
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