L’edizione 2023 di Foto/Industria, biennale di fotografia dell’industria e del lavoro, prodotta e promossa dalla Fondazione MAST di Bologna, a cura di Francesco Zanot, è un percorso espositivo all’insegna dell’eterogeneità. Dodici mostre indagano il tema del gioco e dell’industria che l’ha partorito. Sottotraccia, in parallelo alla lettura rappresentativa dei contenuti, si annida anche una particolare attenzione alla natura stessa del linguaggio fotografico, dalle sue origini fino ad oggi. È evidente che l’interesse di Zanot e Co. si sia concentrato maggiormente sulle forme contemporanee della fotografia, sull’ibridazione delle immagini con realtà virtuali e intelligenze artificiali.
Gli allestimenti immersivi sono pensati ad arte per far vivere allo spettatore l’idea del gioco, ma allo stesso tempo c’è spazio anche per la “tradizione”, con mostre che raccontano di un processo fotografico originario – di quando ancora i tempi di esposizione erano molto più lunghi di un fulmineo clic – e attraverso progetti che portano alla luce autori degli inizi del Novecento. Foto/Industria abbraccia il linguaggio fotografico nella sua complessità, nella sua completezza, facendo talvolta girare la testa ad uno spettatore che si ritrova proiettato nel passato, nel futuro e nel presente.
Per questa sesta edizione di Foto/Industria vi siete focalizzati sulla rappresentazione dell’industria del gioco. Che attinenza con l’attualità vi ha spinto a concentrarvi su questo tema?
Come dicevi tu ci interessava focalizzarci sulla rappresentazione dell’industria del gioco, del “gioco” inteso come risultato di un processo industriale, non semplicemente sul concetto di “game” slegato dal contesto della sua produzione. Fin dall’inizio lo scopo della Biennale Foto/Industria è stato quello di concentrarsi su specifici comparti industriali particolarmente importanti e di attualità e l’industria del gioco è assolutamente un’industria trainante nel mondo, dal punto di vista economico, ma anche sociale; è un mercato di straordinaria importanza. Il suo valore economico è doppio rispetto a quello dell’industria cinematografica, o anche musicale.
Inoltre, la Fondazione MAST si è sempre interessata al rapporto con la tecnologia e il “gioco” è portatore anche di questo contenuto, come, per esempio, il video-game. Alcune delle mostre esposte per questa edizione della Biennale sono state concepite e allestite esse stesse come un video-game.
Per tutti questi motivi consideriamo questo tema molto attinente con l’attualità odierna.
Le mostre sono eterogenee e abbracciano un periodo storico molto vasto, dalla fine dell’Ottocento alla contemporaneità. Ci sono dei filoni narrativi entro cui avete lavorato per scegliere gli autori?
Abbiamo messo insieme, nel corso degli ultimi mesi, numerosi progetti che avessero a che fare con il tema del game, un centinaio circa. Abbiamo poi fatto una selezione di tutti questi lavori in base a determinate sottocategorie: gioco e psicologia, gioco ed educazione, gioco e storia, gioco e politica/economia, gioco e tecnologia. Volevamo raccontare la complessità di questo tema, guardandolo a 360°. Dopo questa prima selezione ne abbiamo effettuata un’altra, questa volta di tipo geografico, perché volevamo applicare al focus un concetto di universalità, ampliando lo sguardo su diverse culture e zone del mondo. Infine, come terzo criterio, che ci ha portato ai lavori che poi abbiamo esposto, abbiamo preso in considerazione il tempo storico, il fatto di voler raccontare il tema del gioco in diverse epoche della storia.
Mi pare che oltre al suo intento rappresentativo sul tema del gioco questa edizione di Foto/Industria abbia espresso anche un’indagine sulla natura del linguaggio fotografico, dalle origini ad oggi…
Sicuramente. Abbiamo cercato di portare in mostra, oltre al “processo industriale”, anche il “processo fotografico”, un’indagine, come dicevi tu, sulla natura del linguaggio fotografico. Uno dei lavori che penso sia più rappresentativo di tale intento è quello di Linda Fregni Nagler, Playgrounds, in cui l’autrice rappresenta i parchi giochi con una modalità tecnica e processuale che riporta alle origini della fotografia; anche Flippers di Olivo Barbieri è un omaggio alla storia della fotografia, alla natura dell’immagine e dell’immaginario relativo al game. Con Berlin Funfair di Heinrich Zille siamo andati a ritroso nel tempo raccontando le fiere berlinesi di inizio XX secolo e contemporaneamente gli inizi di un mezzo, quello fotografico, che si stava rendendo anche linguaggio.
Erik Kessels in Carlo e Luciana lavora con le “photo trouvée”, concependo le foto d’archivio come mezzo di espressione autoriale e indagando i meccanismi altrui del fotografare; per parlare di contemporaneo, invece, tra gli altri, ci sono i giovani artisti di ECAL/University of Art and Design di Losanna che hanno usato, in Automated Photography, l’Intelligenza Artificiale e le nuove tecnologie, mostrando lo stato attuale del linguaggio fotografico che si sta mescolando sempre più con questi altri nuovi modi di produzione di immagini, in risultati sempre più ibridi. L’idea era quella di considerare la fotografia un soggetto di riflessione e non solo la tecnica che congiunge l’eterogeneità dei lavori in mostra.
Berlin Funfair di Heinrich Zille, che documenta il dietro le quinte delle fiere berlinesi a inizi Novecento, può essere visto come progetto precursore di Carnival Strippers di Susan Meiselas, con cui la fotografa americana, tra il 1972 e il 1975, documentò il dietro le quinte degli spogliarelli del New England, Pennsylvania e Carolina del Sud?
C’è sicuramente una forte connessione tra i due lavori, ma non so quanto la Meiselas possa essere stata a conoscenza del lavoro di Zille. La sensibilità di documentazione è molto simile, in effetti, per l’idea di concentrare l’attenzione al di là della scenografia dello spettacolo, delle fiere nel caso di Zille e degli spogliarelli per la Meiselas. Del lavoro di Zille, comunque, io trovo strabiliante come appaia di grande anticipo sui tempi, per i soggetti che rappresenta e per come li rappresenta, per la modernità del suo sguardo. Considerando che sono immagini di inizio Novecento, sembrano datate negli anni Settanta. Proprio per questo motivo Jeff Wall rimase affascinato da queste immagini e fu uno dei primi a promuoverle negli anni Ottanta e a far conoscere Heinrich Zille.
Flippers (1977 – 1978), esposto al Museo Civico Archeologico, è uno dei primi lavori di Olivo Barbieri, apparentemente distante da quella ricerca visiva sul paesaggio che lo inserirà nella scuola italiana di paesaggio di Viaggio in Italia. Cosa rimane, nella ricerca che seguirà, del “primo Barbieri”, autore di Flippers?
Nel 1977 Olivo Barbieri scopre un deposito abbandonato di flipper nei pressi dalla propria abitazione e trascorre il periodo successivo a fotografarne ogni angolo e ogni prospettiva. Secondo me esiste una forte continuità tra le immagini che produsse allora e quelle che seguirono dopo. Inizialmente Barbieri era molto influenzato dalla Pop Art, dal Dadaismo, dall’idea del ready made, elementi che in un qualche modo si riscontrano anche nella sua produzione successiva, con dei focus specifici come l’elaborazione del concetto di “comunicazione di massa” e della conseguente “moltiplicazione delle immagini”. Inoltre, secondo me, il filo rosso di tutta l’opera di Barbieri è il fatto che abbia sempre messo in discussione lo statuto di verità della fotografia, il fatto di crederle, ovvero la relazione della fotografia con il proprio soggetto e la realtà stessa. Intraprendendo tale indagine sulla natura della fotografia inizia fotografando immagini di immagini, in Flippers, per investigare il concetto di “rappresentazione” come revisione della realtà che ci circonda.
Prosegue, poi, nella sua produzione fotografando di notte, e l’illuminazione artificiale notturna gli dà la possibilità di reinventare radicalmente la realtà attraverso la luce. In seguito, introduce la messa a fuoco selettiva con cui mette in discussione la realtà che ha di fronte, la trasforma in qualcosa d’altro, facendo sembrare le città dei modellini o anche dei giocattoli. Il suo pensiero artistico continuerà sempre a procedere sul sottile confine tra realtà e finzione, anche le immagini usate per Viaggio in Italia, ad esempio, sono una chiara rappresentazione del suo intendere la fotografia non come mezzo di documentazione, ma di interpretazione.
Per quanto riguarda la fruizione delle mostre esposte, in molti casi avete creato degli allestimenti immersivi con realtà virtuali e video. Pensi che questo tipo di allestimenti abbia favorito la comprensione del tema da parte dello spettatore?
Penso di sì, anche se, comunque, abbiamo cercato di rendere ogni mostra come un’installazione e ci siamo concentrati, in virtù di questa decisione, non sul supporto, ma sulla realizzazione di oggetti che entrassero all’interno dello spazio e consentissero un rapporto spazio/spettatore diverso rispetto alla norma, più installativo, per l’appunto. Così facendo, volevamo che il dialogo opera/spazio/spettatore ne uscisse più coeso, più compatto. Ad esempio, per la mostra di Zille abbiamo lavorato con l’uso delle tende; per Barbieri e Faust ci siamo serviti di tre elementi rigidi, posti all’inizio del percorso, che fungono da totem e invitano gli spettatori ad entrare; nella mostra di Cécile Evans abbiamo inserito una piattaforma per sorreggere lo schermo della proiezione; per quella di Linda Fregni Nagler abbiamo pensato a delle strutture di supporto che non sono propriamente dei pannelli, ma uno scheletro che ripete lo schema del fregio della salta. In generale, ispirandoci, il più possibile, al concetto di “playground” abbiamo cercato di far sentire lo spettatore in uno spazio sospeso dalla realtà.
Molte sedi delle mostre, quelle nel centro di Bologna, sono palazzi nobiliari o chiese sconsacrate con una forte identità dal punto di vista artistico e ornamentale, ad esempio San Giorgio in Poggiale - che ospita La salle de classe di Hicham Benohoud - con le opere di Pizzi Cannella e di Parmiggiani. Come siete riusciti a lavorare con degli spazi così connotati?
Dopo aver selezionato le mostre abbiamo cercato di far dialogare ognuna di loro con lo spazio più affine. Nel caso del progetto di Hicham, sentivamo che San Giorgio in Poggiale poteva avere una certa continuità di significato con il suo lavoro perché La salle de classe rappresenta una classe di studenti in Marocco e la sede espositiva è, ad oggi, una biblioteca dove si svolge un’attività educativa e divulgativa simile ad una classe scolastica. Nel confrontarci con i fregi o le opere contenute all’interno delle sedi, nel caso di San Giorgio in Poggiale con le opere di Pizzi Cannella e Parmiggiani, il nostro intento è stato quello di dialogarci e non di cancellarne la presenza. Infatti, le immagini di Hicham Benohoud abbiamo deciso di allestirle su dei leggii, la cui inclinazione le metteva in stretto rapporto visivo con la serie di Pizzi Cannella esposta sulle pareti.
Inoltre, le fotografie erano adagiate su dei listelli di legno appositamente bruciati, per richiamare l’installazione di Parmiggiani. Oppure, ad esempio, per Ghost Karaoke, un lavoro sulla memoria familiare, di Raed Yassin, abbiamo, con consapevolezza, scelto Palazzo Vizzani perché era un palazzo ad uso domestico. Non siamo intervenuti assolutamente sulla conformazione delle stanze, ma solo sulle luci, per cercare di mettere sullo stesso piano di lettura le pareti delle stanze e le immagini esposte.
Stai già pensando al focus della prossima edizione?
Sì, in parte. Ho parecchie idee, ma sinceramente è ancora presto per dar loro una forma e una definizione.
Ulteriori informazioni sulla Biennale Foto/Industria sono disponibili sui siti fotoindustria.it e mast.org.