Il ritratto, si sa, coinvolge contemporaneamente fotografo, soggetto e anche chi fruisce dell’immagine. Sembra averlo ben chiaro Dawid Galinski, che su questa dinamica ha fondato la sua produzione artistica e fotografica. Ma il suo lavoro non finisce qui: Dawid usa la ritrattistica anche come contenitore per indagare la natura dell’immagine, per farne espressione psicologica ed emotiva.
L’abbiamo intervistato per farci raccontare il suo processo creativo.
Sei particolarmente attratto dalla produzione ritrattistica. Cosa ti interessa di questa espressione fotografica?
La pratica ritrattistica è un mondo di elementi interconnessi: il modo in cui viene condotta una sessione, il modo in cui la modella interagisce con il fotografo e il modo in cui il fotografo influenza la modella, hanno un impatto anche su chi guarda la fotografia. Questo perché ciò che vedo con i miei occhi viene percepito anche dall’obiettivo della fotocamera e, in definitiva, catturato dal sensore. Ad esempio, se la modella si sente a disagio o percepisce che il fotografo ha intenzioni poco chiare, quel disagio si rifletterà nella foto, non si può nascondere. D’altra parte, questo può essere usato dal fotografo per suscitare intenzionalmente delle reazioni da parte del soggetto, sebbene questo sia un argomento scivoloso e moralmente discutibile.
Ho provato questo approccio durante una sessione fotografica con attori teatrali, quando miravo a ritrarre un ampio spettro di emozioni, che ho deliberatamente ‘stimolato’ durante la fase di scatto. In seguito, mi sono scusato e ho spiegato educatamente le mie intenzioni. Ho potuto affrontare quel tipo di sessione solo perché ero amico di ognuna delle modelle, rapporto che ha permesso loro di essere a loro agio nell’esprimere apertamente le proprie emozioni. Con una modella appena conosciuta, probabilmente la collaborazione si sarebbe conclusa con una porta sbattuta andando via.
Questo è ciò che rende il tutto così entusiasmante: le sessioni di ritratto coinvolgono elementi di psicologia e ogni modella è diversa, richiedendo un approccio unico. Se applichiamo gli stessi schemi a ogni modella, le foto saranno probabilmente, nella migliore delle ipotesi, ‘neutrali’ agli occhi degli spettatori, e nel mondo della fotografia non c’è niente di peggio dell’indifferenza.
Qual è l’approccio che adotti con i tuoi soggetti? Le tue immagini sono messe in scena in cui il soggetto deve recitare un ruolo o lasci spazio anche all’improvvisazione?
Mi preparo ossessivamente: tonnellate di schizzi, appunti, riferimenti. Al momento ho tre diverse traduzioni della Divina Commedia di Dante sulla scrivania per uno shooting che sto preparando lentamente da oltre cinque anni. Mi piace alzare l’asticella, sperimentare e testare i limiti delle mie capacità.
Durante una sessione, ognuno ha i suoi compiti e interpreta il suo ruolo: tutti i partecipanti sono parte del processo, ed è davvero un lavoro di squadra. Ma nonostante tutta questa pianificazione, l’improvvisazione si insinua sempre e, a dire il vero, i momenti migliori spesso nascono dal caos: oggetti che si rompono o che fanno quello che non dovrebbero fare o modelle che agiscono in maniera inaspettata. È allora che la sessione inizia a respirare, dando al risultato finale un aspetto più ‘organico’. La scena assume una vita propria, diventando una sorta di evento che coinvolge tutti e a volte prende direzioni completamente inattese, che nessuno aveva previsto.
In RED lavori anche con la matericità della carta fotografica. Ci racconti come è nata l’idea di questo progetto e come l’hai prodotto?
È stato un progetto affascinante. Prima della sessione fotografica, ho parlato con Radek Korneluk, di Printroom ASP Łódź, che è il mio stampatore da oltre dieci anni ed è l’unico in Polonia che pensa come un fotografo e comprende perfettamente l’effetto finale che voglio ottenere. Il nostro obiettivo era creare una fotografia ibrida ed esplorare i limiti e le possibilità della fotocamera, del software grafico, della carta e del plotter. Abbiamo testato vari profili colore e diverse carte Hahnemühle; la carta è stata incollata, strappata, dipinta e danneggiata in ogni modo possibile per selezionare infine ciò che stavamo cercando. Invece di modificare digitalmente come fa la maggior parte dei fotografi, ho fatto tutto a mano, ho fotografato le stampe danneggiate e le ho unite in un unico pezzo finale.
Durante la produzione di RED, nello specifico per un’immagine ispirata a Magritte, ho lavorato con un vero esemplare di farfalla. Era l’unico esemplare del suo genere che sono riuscito a trovare in Polonia. Le ali erano così fragili che persino respirarci sopra sembrava rischioso.
In generale, per la realizzazione del progetto mescolavamo carte lucide e opache e dovevamo strapparle con precisione chirurgica. Non so quante sigarette abbiamo fumato durante quella fase di lavorazione, non sono mai stato così stressato nel preparare le stampe. Un piccolo errore e si ricominciava da capo.
In Three Moirai invece i tuoi ritratti raccontano di storie dalle tinte gotiche. A cosa ti sei ispirato e come hai lavorato sul set per la produzione?
Three Moirai è frutto di una collaborazione a tutto campo con la modella Paulina Natkaniec. Siamo partiti dall’idea di un trittico e abbiamo giocato con i possibili temi. Alla fine, abbiamo scelto le tre Moire: Cloto, Lachesi e Atropo. Abbiamo trascorso oltre sei mesi a fare ricerche sul mito, scavando nel simbolismo e cercando oggetti di scena. Abbiamo trovato un filato vecchio di oltre 150 anni in un museo e abbiamo utilizzato vero cotone di Poznań. I costumi sono stati realizzati su misura per la figura di Paulina dalla bravissima Katarzyna Konieczka a Danzica. Inizialmente volevamo girare nella miniera di sale di Wieliczka a Cracovia, ma alla fine abbiamo scelto il teatro Terminus a Quo a Nowa Sól.
Durante la pandemia, per trovare tutto ciò che ci sarebbe servito per il progetto, abbiamo viaggiato per quasi tutta la Polonia. L’attrezzatura fotografica mi è stata gentilmente prestata da Hasselblad, che mi ha fornito una fotocamera H6D, un adattatore tilt-shift e un obiettivo HC 100 mm f/2,2. In seguito, abbiamo ripetuto la sessione a Varsavia, realizzando un trittico con la tecnica del collodio umido sotto la guida di Paweł Śmiałek.
Davanti ai ritratti di Lost in time ci si chiede se siano fotografie o dipinti iperrealistici. Cosa vuoi comunicare con questo lavoro?
Quella serie è stata creata interamente con l’intelligenza artificiale (IA) di Stable Diffusion.
Ero curioso di sperimentare fino a che punto le nuove tecnologie potessero sostituire la fotografia tradizionale o arricchirla con elementi che una determinata sessione avrebbe potuto richiedere. È stato un esperimento che, a dire il vero, non ha alcun valore estetico o sostanziale per me. Ho combinato diversi tipi di prompt in uno solo e ho semplicemente cambiato il tema per generare alcune immagini nello stesso ciclo.
In seguito, mi sono concentrato sulla post-produzione perché le immagini presentavano numerose imperfezioni. Non considero questo lavoro prezioso per la mia pratica artistica perché non lo sento mio. Anche la questione del copyright è discutibile in questo caso, poiché Stable Diffusion utilizza fonti esterne e lo stile dei prompt apparteneva ad altri autori, nello specifico quello relativo a questo progetto era basato sui fenomenali dipinti di Greg Rutkowski.
Perché sei particolarmente attratto dalle ambientazioni cupe, come in Dystopia?
Esiste un luogo comune sui comici, che sarebbero segretamente depressi, e credo che ci sia del vero. Conosco molti artisti che creano opere visive che, per usare un eufemismo, non ispirano molto ottimismo, eppure nella loro vita quotidiana sono le persone più gioiose e ottimiste che si possano mai incontrare. D’altro canto, però, ce ne sono altri che canalizzano le loro difficili situazioni di vita riversando emozioni negative sulla carta, e io appartengo a questo gruppo. Più scure diventano le mie foto, più scura e difficile sarà la mia situazione personale. Il mio ultimo progetto era completamente immerso nel nero.
Nel tuo lavoro hai dei riferimenti fotografici da cui trai ispirazione?
Per la fotografia di scena, ovviamente Gregory Crewdson. Per la ritrattistica Annie Leibovitz, ma mi ispiro anche allo stile di Andrzej Dragan e Roger Ballen.
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