Sulle odierne carte geografiche il Nagorno Karabakh – territorio armeno all’interno dei confini dell’Azerbaigian – non esiste più, non ce n’è più traccia. La sua popolazione è stata resa profuga, le case bombardate, i monumenti religiosi rasi al suolo, la sua storia apparentemente azzerata. Per evitare che anche la memoria del luogo e le storie legate ad essa vengano disperse come sabbia al vento Emanuela Colombo ha dato vita a un progetto, C’era una volta il Nagorno Karabakh, che evoca quel territorio fantasma e che dà voce ai superstiti di quella tragedia.
C’era una volta il Nagorno Karabakh è dedicato alle tracce di un Paese che nelle cartine geografiche non esiste più. Ce ne racconti la storia?
Fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica il Nagorno Karabakh, ‘Artsakh’ in armeno, è stato per volere di Stalin un oblast (regione) autonomo armeno, con capitale Stepanakert, facente però parte dell’Azerbaigian. Azeri e armeni vi convivevano in pace. La complicata mappa delle enclavi autonome nel Caucaso è un’eredità del sistema sovietico di cui Mosca si è servita per decenni per dividere e governare meglio il suo impero.
Gli armeni del Karabakh, dunque, avevano raggiunto una loro autonomia già dal 1921, ma Stalin non volle concedere loro l’indipendenza. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, però, una buona parte delle repubbliche socialiste che la componevano si dichiararono indipendenti e così avvenne anche per la Repubblica dell’Artsakh, cioè il Nagorno Karabakh. Da quel momento scoppiarono molte guerre per la disputa sui confini e per la sicurezza e i diritti della minoranza armena.
Venendo ai giorni nostri, la Russia, fino a poco tempo fa stretta alleata dell’Armenia, si trova sempre più impantanata nella guerra di invasione in Ucraina e non intende lasciarsi coinvolgere in una guerra al suo fianco. L’Azerbaigian, dunque, ha visto aperta per sé una grande opportunità per chiudere una volta per tutte la “questione Karabakh” e riannettersi definitivamente i territori interni ai suoi confini. Non dimentichiamo, tra l’altro, che gli armeni sono tradizionalmente cristiano ortodossi e gli azeri musulmani.
A inizio 2023 l’offensiva dell’Azerbaigian ha creato una crisi umanitaria spaventosa sottoponendo la popolazione del Karabakh a nove mesi di isolamento con il blocco del corridoio di Lachin, unica via di approvvigionamento per gli armeni della regione. In questo modo, Aliyev, presidente azero, ha trasformato il Nagorno Karabakh in un vasto campo di concentramento per 120.000 armeni rimasti di fatto imprigionati, senza forniture energetiche, cibo, medicine e carburante. Inoltre, sono stati distrutti monumenti cristiani e sono stati calpestati i diritti fondamentali di autonomia culturale e politica. Nel settembre 2023 i villaggi sono stati bombardati, da Nord a Sud, costringendo una popolazione già allo stremo ad abbandonare case, terre, fattorie e villaggi per salvarsi la vita. E così il Nagorno Karabakh ha smesso di esistere.
Come la storia del Nagorno Karabakh si è intersecata con la tua?
Personalmente ho sentito parlare per la prima volta del Nagorno Karabakh cinque anni fa mentre ero in Armenia con una collega per un assegnato. La nostra fixer, Anna, giornalista e traduttrice armena, frequentava molto quel territorio, che, ai tempi, era molto attivo a livello culturale, organizzando festival d’arte e di musica. Lei ce ne parlava come di un posto meraviglioso dove vivere ed essere felici.
Syuzanna Martirosyan, 35 anni, vive con il marito e tre figli in una palazzina fatiscente a Hrazdan. Riescono a malapena a pagare l’affitto con il sussidio del Governo agli esodati. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”.
A inizio 2023 le prime notizie dell’isolamento forzato dell’enclave sono arrivate in Italia e subito ho contatto Anna per sapere come stava e com’era la situazione. Quasi un anno dopo, a dramma avvenuto, ho deciso di andare a vedere coi miei occhi cosa era successo veramente e di provare a raccontarlo con le mie immagini, forte anche del fatto che nessun media europeo o internazionale aveva mai parlato della scomparsa di questo Stato e della diaspora forzata dei suoi abitanti.
Come ti sei mossa per strutturare il tuo progetto e in quanto tempo lo hai realizzato?
La figura di Anna per me è stata importantissima. È stata con me durante tutto il periodo di permanenza sul posto e, tramite le sue conoscenze, sono stata in grado di entrare in contatto con moltissimi profughi dal Karabakh, avvicinandomi tanto da farmi aprire le porte delle loro case e dei loro ‘rifugi’ e ottenere il permesso di ritrarli lì. Quello che volevo fare, infatti, era raccontare le loro condizioni e la loro ‘nuova’ vita, ma per arrivare a questo tipo di narrazione dovevo fare in modo che si fidassero di me, intessendo dei rapporti umanamente diretti e profondi. Con Anna, per dieci giorni, abbiamo girato in macchina lungo tutta l’Armenia, incontrando le persone e facendoci raccontare le loro storie.
Qual è il sentimento prevalente che hai avvertito incontrando le persone che sono scappate dal Nagorno Karabakh?
Io sono arrivata in Armenia nell’aprile del 2024, quando gli abitanti armeni del Karabakh erano già stati costretti a fuggire sotto le bombe azere, dopo mesi di isolamento forzato, lasciando le loro case e portando con sé i soli vestiti che avevano addosso. Le persone che ho incontrato sono state accolte in Armenia come profughi e profughi si sentono. Le famiglie sono state divise, i vicini di casa si sono persi di vista, i bambini non riescono ad inserirsi nelle nuove realtà scolastiche.
Nessuno di loro, inoltre, abita in una casa degna di questo nome. La maggior parte di queste persone desidera tornare nel proprio Paese, in quel posto meraviglioso che era il Karabakh, dove la religione e la cultura armena sono nate. C’è anche chi, invece, è così stanco di battaglie, scontri e incertezze che non vede l’ora di poter lasciare addirittura l’Armenia stessa e ricominciare una nuova vita lontano da uno scenario opprimente e sfiancante.
A Janna Shirnyan e suo marito restano solo due ricordi della vita passata: una collana d’argento e un pugnale che il consorte ha avuto in regalo da un ufficiale dell’esercito russo per avergli salvato la vita. © Emanuela Colombo, “C’era una volta il Nagorno Karabakh”.
Che tipo di difficoltà hai incontrato nella realizzazione di C’era una volta il Nagorno Karabakh, dal punto di vista pratico ma anche umano?
Dal punto di vista pratico non ho incontrato grosse difficoltà nella realizzazione di questo lavoro. L’Armenia è un Paese pacifico, le persone sono accoglienti e le infrastrutture per gli spostamenti sono buone. Avendo con me Anna, che è una donna molto attiva ed empatica, non ho travato grosse difficoltà ad entrare in contatto con le persone che ho fotografato, anche se la maggior parte di loro era molto stanca, depressa e delusa. Per questo motivo trovare il modo di indurre le persone ad aprirsi con noi tanto da lasciarsi fotografare non è stato affatto facile.
La signora Janna Shirnyan, per esempio, ha inveito per dieci minuti buoni contro tutti i media che le promettevano aiuto per farla tornare nella sua casa in Karabakh in cambio di interviste e racconti da pubblicare, senza però, poi, fare nulla. C’è voluto tatto e pazienza per farle capire che noi non promettevamo niente ma che la sua storia era importante e che il nostro desiderio era quello di farla conoscere a più persone possibile di modo che un’ingiustizia come quella subita da lei e dai suoi concittadini non venisse ignorata.
Molti sono i fotografi che hanno adottato un approccio immersivo nel loro lavoro, con le persone e le storie che volevano raccontare. Quali sono i tuoi modelli, fotograficamente parlando?
Io amo la fotografia in tutte le sue forme ed appena posso ne studio la storia. Passo molto del mio tempo a guardare i lavori dei grandi fotografi del passato e del presente e posso dire che tutta la fotografia che è passata attraverso i miei occhi ha influenzato il mio lavoro. Mi vengono in mente Dorothea Lange, Stephen Shore, Alec Soth, Darcy Padilla, Nan Goldin. I grandi maestri della fotografia di racconto, insomma.
In C’era una volta il Nagorno Karabakh si avverte la tua intenzione di far dialogare differenti dimensioni temporali, tra il passato e il presente. In tal senso come hai realizzato la narrazione del tuo progetto?
Visto che l’evento che desideravo raccontare era già passato nel momento in cui io ho scattato le immagini del mio lavoro, ho provato a raccontare gli avvenimenti e i sentimenti provati dalle persone che fotografavo chiedendo loro di mostrarmi oggetti che riportassero alla luce ricordi della loro vita passata o fotografie che descrivessero la loro vita prima del tragico momento in cui si sono trasformati in profughi. Ho alternato dunque i ritratti dei protagonisti della mia storia, le immagini del presente e dei luoghi dove sono stati costretti a trasferirsi con le immagini degli oggetti e delle fotografie provenienti dal loro passato.
Prediligi la luce ambientale per il tuo lavoro. È sempre stato così?
Amo da sempre fotografare in luce ambiente. La mia Nikon D850 si comporta molto bene in condizioni di luce ‘estreme’: all’interno delle case e quando l’unica luce nell’ambiente proviene dalle finestre. Trovo inoltre che l’utilizzo dei flash e delle luci artificiali metta sempre un po’ in soggezione i soggetti fotografati, che nei miei racconti sono spesso già provati dalle situazioni estreme in cui si vengono a trovare.
C’è una regia, da parte tua, nelle tue immagini?
La composizione delle mie immagini, solitamente, la penso in relazione alla luce. Non modifico mai gli ambienti in cui mi trovo e chiedo ai miei soggetti di posizionarsi per il ritratto in modo che la luce arrivi sui loro volti nel modo migliore possibile. Sono io a dirigere la scena, anche se il mio lavoro si compone di una parte importante dedicata all’ascolto dell’altro, delle sue storie e dei suoi racconti.
Hai una storia da raccontarci che ti ha particolarmente colpito, stando lì?
Una storia che mi ha particolarmente colpito è quella dei coniugi Mayilyan. Entrambi hanno settantuno anni e hanno abitato per tutta la loro vita a Khapat, in Karabakh. Si sono occupati da sempre della loro nipote autistica e orfana dei genitori dall’età di dieci anni. Il loro figlio, e padre della ragazza, era malato e a causa della guerra non è stato possibile portarlo in ospedale in tempo. Così, con la nipote, sono arrivati a Barekamavan, in Armenia, dopo una drammatica fuga da casa loro in Karabakh, distrutta dalle bombe nel settembre del 2023.
Il villaggio di Barekamavan, nella regione armena del Tavush, è circondato su tre lati dal confine con l’Azerbaigian, e per questo motivo è stato gradualmente abbandonato. Per evitare la sua totale rovina, le case lasciate vuote sono state date come abitazione ai profughi del Karabakh gratuitamente per tre anni. Purtroppo le abitazioni risultano abbandonate da molto tempo e spesso versano in condizioni pessime. Nel villaggio non ci sono né acqua corrente né gas, l’unica occupazione possibile è l’agricoltura. Nel villaggio abitano ora venti famiglie sfollate dal Karabakh.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Emanuela Colombo sono disponibili sul suo sito emanuelacolombo.com.
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