Una montagna di ricci indomabili e il sorriso brioso di chi ha appena vinto un Premio. Sheida Soleimani (Providence, 1990) indossa un abito vivace, che sembra uscito direttamente da uno dei suoi tableaux fotografici esposti sulle pareti della Fondazione MAST. “L’ho scelto casualmente” ci dice mentre le scattiamo un ritratto di fronte a una delle “affollate” composizioni in mostra, nelle quali – al contrario – di casuale non c’è assolutamente nulla.
Eccezion fatta per alcuni close-up che si concentrano su singoli dettagli, infatti, quelli che di primo acchito possono sembrare stravaganti fotomontaggi sono set pazientemente allestiti dall’artista dal primo all’ultimo elemento, successivamente fotografati con una fotocamera medioformato Mamiya 645 D con dorso digitale Leaf.
Flyways di Sheida Soleimani vince il MAST Photography Grant on Industry and Work 2025
Il lavoro si intitola Flyways (Rotte migratorie) e le è valso il MAST Photography Grant on Industry and Work 2025, assegnatole poco prima della nostra chiacchierata, in chiusura della conferenza di presentazione dei progetti dei cinque finalisti del concorso e della mostra che li ospita fino al 4 maggio presso le gallerie della Fondazione MAST di Bologna, con la curatela di Urs Stahel.
È proprio Stahel a definire le opere di Soleimani delle “esplosioni di bombe su pareti”, prima di passare a un’azzeccatissima analogia culinaria con la torta millefoglie. Il perché del goloso accostamento è presto detto: le immagini di Flyways sono frutto di una complessa e attenta operazione di stratificazione e rappresentano degli spazi di intersezione tra tante vite e altrettante storie.
Nella serie della giovane iraniano-americana c’è la sua natura di artista, la sua attività di responsabile di un centro di riabilitazione di fauna selvatica, la storia dei suoi genitori e quella di tante donne di Donna, Vita, Libertà, il movimento che si oppone alle politiche oppressive del governo iraniano promuovendo l’uguaglianza di genere e la difesa dei diritti umani.
Lo strato di Flyways a contatto diretto con l’essenza del concorso, e cioè con il tema dell’industria e del lavoro, è quello che riguarda gli uccelli ricoverati dall’artista nella sua clinica per animali di Providence, che la ragazza ha scelto di chiamare “Congress of the Birds” ispirandosi a una poesia persiana. Si tratta prevalentemente di uccelli feriti dall’impatto con infrastrutture, automobili, manufatti dell’architettura contemporanea, facciate di enormi edifici che ospitano uffici, che insieme alle turbine eoliche, all’avvelenamento da pesticidi e alla distruzione degli habitat a favore dell’attività edilizia rappresentano le principali cause di morte di quantità di animali sempre più impressionanti (1,4 miliardi di uccelli negli Stati Uniti ogni anno).
Partendo dall’analisi delle modalità con cui l’industrializzazione danneggia o uccide gli uccelli, Soleimani ha ampliato la prospettiva, osservando come le infrastrutture urbane e i luoghi di lavoro siano responsabili di incidenti, spesso mortali, che coinvolgono le persone.
Il mondo governato dalla distruzione diretta e indiretta della vita umana e non umana, da parte dell’uomo stesso, diventa così il fulcro della ricerca della giovane artista, che approda allo strato più politico del lavoro: Soleimani sovrappone le storie degli uccelli migratori feriti a quelle spesso inascoltate o censurate delle donne del movimento globale Donna, Vita, Libertà. Lo fa inserendo nelle sue immagini tridimensionali oggetti e simboli carichi di significato, che rimandano ai racconti di quelle donne e che condividono la superficie del fotogramma con gli uccelli, talvolta vivi, ma feriti, talvolta morti.
Storia di due genitori dissidenti
C’è di più sui complessi set costruiti dall’artista: i suoi genitori, che posano fisicamente per alcuni scatti, ma che permeano idealmente l’intero progetto. Negli anni ’70 e ’80 i genitori di Soleimani erano dissidenti politici in Iran. La madre era infermiera e il padre medico ed entrambi curavano i feriti in situazioni critiche negli ospedali da campo dei guerriglieri. Pagarono a caro prezzo l’opposizione al regime: la madre fu messa in isolamento, torturata, molestata e abusata psicologicamente perché rivelasse informazioni sugli spostamenti del marito. Dopo la rivoluzione i due scapparono dal Paese – il padre nel 1984 e la madre due anni dopo – riuscendo a trasferirsi negli Stati Uniti.
Nelle gallerie del MAST, anche la parete dedicata alle fotografie di Soleimani diventa uno strato che interagisce con le immagini incorniciate, ospitando una riproduzione gigante dello schizzo buttato giù dal padre dell’artista al tempo in cui pianificava la fuga dall’Iran in sella a un cavallo, lungo una via impervia attraverso le montagne.
Quando chiediamo a Soleimani di individuare una fotografia a cui tiene particolarmente per poi analizzarla insieme a noi, la scelta ricade istantaneamente su Justice (2024), lo scatto che raffigura sua madre. La donna è in piedi, il volto coperto da un ovale in carta che ne proteggere l’identità dalla minaccia di persecuzione che tutt’oggi sembra incombere su di lei.
La posizione statuaria richiama l’iconografia della dea della Giustizia (da cui il titolo), rivisitata cospargendo la composizione di pelli di serpente raccolte dalla donna stessa nel deserto in cui vive.
Un serpente vivo e dall’aria innocua è attorcigliato sul suo braccio destro, una strolaga imbalsamata giace ai suoi piedi. Sullo sfondo una stampa a motivo vegetale è sovrastata da ritagli di carta dalla forma quadrata, elemento ricorrente della serie. Traumatizzata dalle vicende antecedenti la sua fuga negli Stati Uniti la madre di Soleimani non è più riuscita a praticare il suo lavoro di infermiera sugli esseri umani, ma ha iniziato a dedicarsi alla cura di animali feriti, proprio come fa sua figlia oggi.
“Anche mia madre è un’artista”, ci fa notare l’autrice di Flyways, “ed è stata lei a disegnare i serpenti arancioni che compaiono sullo sfondo. I serpenti mi fanno pensare al linguaggio simbolico, alla comunicazione tramite codici alla quale devono ricorrere gli artisti che vivono sotto regimi totalitari. I serpenti disegnati da mia madre e le caselle quadrate sulle quali essi si muovono sono un rimando al gioco di origini antiche Snakes and Ladders (Serpenti e scale, simile al Gioco dell’oca, n.d.r.). È un gioco in cui non esiste strategia, c’è una sorta di tabellone a quadretti, lanci un dado, se sei fortunato sali su una scala, se non lo sei vieni morso da un serpente e retrocedi. Mi è parso uno schema del tutto simile a quello che sono costrette ad affrontare le persone che scelgono di emigrare, come hanno fatto i miei genitori: sopravvivi solo se sei fortunato”.
Flyways rappresenta l’impegno di Sheida Soleimani a generare nuove rotte di comunicazione e condivisione che lascino fluire liberamente storie troppo spesso censurate e a contribuire a un’inversione di tendenza rispetto alla devastazione e alla disumanizzazione generati dallo sviluppo industriale. Mentre la crescita dei flussi di denaro e di potere su scala globale altera la nostra quotidianità, minacciando persino l’integrità dei nostri valori morali, il Premio a cadenza biennale proposto dalla Fondazione MAST si pone in ascolto rispetto al punto di vista dei giovani protagonisti della fotografia contemporanea, auspicando il ripristino di un equilibrio tra produzione, creatività e umanità.
I finalisti del MAST Photography Grant on Industry and Work 2025
Sheida Soleimani è stata selezionata tra quarantadue candidati under 35 provenienti da tutto il mondo e ha ottenuto una borsa di ricerca per la realizzazione di nuove opere nell’arco temporale di un anno. In finale, insieme a lei, altri quattro giovani artisti: Felicity Hammond (Birmingham, 1988), Gosette Lubondo (Kinshasa, 1993), Silvia Rosi (Scandiano, 1992) e Kai Wasikowski (Australia, 1992).
I finalisti dell’ottava edizione del Premio sono presentati sul sito ufficiale del concorso.
Silvia Rosi/Kɔdi
Il titolo di questa serie si riferisce alla parola togolese “codice”. Il lavoro presentato da Rosi consiste in una serie di ritratti e autoritratti ispirati alle storie di potenti donne che controllavano il commercio di tessuti wax a Lomé, nel Togo, figure importanti nella conquista dell’indipendenza dalle potenze coloniali.
Gosette Lubondo/Imaginary Trip III
Attraverso una serie di fotografie sulle industrie coloniali del territorio di Lukula, nella Repubblica Democratica del Congo, Lubondo approfondisce la ricerca sulla storia e la memoria del suo paese. Specializzati per lo più nella produzione di legname, questi luoghi erano centri nevralgici dell’economia locale.
Kai Wasikowski/The Bees and the Ledger
In queste opere Wasikowski indaga come nei flussi migratori si verifichi spesso, per diverse ragioni, una dispersione di professionalità: esperienze lavorative maturate nel paese d’origine, non vengono riconosciute dalla nuova patria causando una perdita netta. Punto di partenza di questa ricerca è la nonna, immigrata dalla Polonia in Australia negli anni Settanta.
Felicity Hammond/Autonomous Body
Con questo progetto Hammond mira a stabilire nuove connessioni tra il passato e il futuro della produzione automobilistica. Le immagini esplorano in modo dialettico i processi di produzione, ancorati all’estrazione mineraria e all’industrializzazione novecentesca, e le più moderne tecnologie di guida autonoma, che pongono le basi dell’automobile quale oggetto sempre più indipendente dal conducente.
MAST Photography Grant on Industry and Work 2025
- A cura di Urs Stahel
- Fondazione MAST, via Speranza, 42 – Bologna
- dal 30 gennaio al 4 maggio 2025
- mar-dom 10-19
- ingresso gratuito
- mast.org
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