La Galleria Harry Bertoia di Pordenone espone, per la prima volta in Italia, un progetto del noto fotografo dell’Agenzia Magnum Bruno Barbey: Gli Italiani. Giovane fotografo rampante e pieno di entusiasmo, Barbey si avventurò lungo lo Stivale per cogliere i volti e le tracce del cambiamento sociale, politico ed economico che l’Italia stava attraversando agli inizi degli anni Sessanta.
Dal 1962 al 1966 l’autore produsse delle immagini che gli valsero l’ingresso nell’Agenzia Magnum e che rappresentarono per lui un momento di estrema crescita, sia per quanto riguarda la sua professione di fotografo, sia per il suo linguaggio e pensiero creativo. Della storia di questo incredibile progetto abbiamo parlato con Marco Minuz, curatore della mostra insieme a Caroline Thiénot-Barbey.
Qual è la storia del progetto Gli Italiani di Bruno Barbey?
Barbey, nato nel 1941 in Marocco, circa vent’anni dopo si trovò in Svizzera a studiare in una scuola di grafica e fotografia, da cui però non trasse particolari motivazioni. In quel periodo, data la vicinanza con l’Italia, cominciò a farvi delle incursioni, guidando la sua Volkswagen. Si accorse che quei viaggi lo affascinavano: il paesaggio, le persone che incontrava e le immagini che ne uscivano lo stimolarono a continuare a documentare l’Italia. Il progetto nacque quindi d’istinto, senza una commissione esterna, fotografando per quattro anni, dal 1962 al 1966. Barbey seguì semplicemente quello che il suo intuito e la sua giovinezza gli dicevano di fare. Sull’onda di queste sensazioni decise di approfondire il suo racconto sul nostro Paese che, agli inizi degli anni Sessanta, era in piena espansione economica, e così i suoi viaggi si allungarono fino ad arrivare al Sud.
In che modo pianificava i suoi viaggi?
Vista la vicinanza con la Svizzera le prime mete furono in Lombardia. Successivamente, però, iniziò a prendere sempre più consapevolezza della bellezza del nostro Paese e della soddisfazione che provava a fotografarlo, ampliando il suo spettro d’azione a est verso Venezia, poi ancora Genova, Roma, Napoli, Palermo. Mentre procedeva con il suo tour la fotografia istintuale cominciò a lasciar spazio a un pensiero fotografico ben definito. Viaggiare fotografando gli insegnava più di quanto avesse fatto fino a quel momento la scuola dove studiava.
Cosa lo attraeva dell’Italia?
Penso che, date le sue origini marocchine, fosse attratto dal paesaggio mediterraneo e che trovasse nell’Italia dell’epoca dei punti in comune con il suo Paese nativo. Credo anche che Barbey avesse colto pienamente l’importanza del periodo storico che stava attraversando il nostro Paese, un momento di grande trasformazione ed espansione. Cercare di raccontare fotograficamente questo processo di cambiamento deve averlo stimolato molto.
Quando si rese consapevole che quelle immagini potevano diventare un progetto?
Gli Italiani partì senza una progettualità definita. I primi segni di uniformità autoriale vanno attribuiti ai suggerimenti e ai consigli di Robert Delpire, che con la sua casa editrice, Delpire Éditeur, nel 1958, aveva pubblicato, in Francia, l’inedito Gli Americani (Les Américains) di Robert Frank.
Delpire aveva pubblicato nel 1958 Robert Frank e dopo qualche anno Les Allemands di René Burri. Voleva fare del lavoro di Barbey il terzo volume della collana?
Delpire incontrò Barbey quando il lavoro non era ancora concluso e data la sua esperienza gli diede numerosi consigli su come conferire al progetto una certa coerenza autoriale, applicando al lavoro uno sguardo unico e particolare sull’Italia. Barbey, dopo questo illuminante incontro, viaggio dopo viaggio, immagine dopo immagine, affinò sempre più la sua prospettiva e la sua sensibilità sulla nostra cultura e su ciò che stava accadendo in Italia, fino a rendere il suo corpus di immagini compatto e fedele a sé stesso. Il libro fu pubblicato da Delpire solo nel 2002, ma quelle immagini, nel 1964, permisero a Bruno Barbey di entrare nella prestigiosa Agenzia Magnum.
Perché non fu pubblicato fino al 2002?
Non posso dirlo con certezza, non c’è documentazione a riguardo, ma forse per Delpire, data l’inesperienza e la giovane età di Barbey, sarebbe stato troppo rischioso pubblicare Les Italiens dopo due libri molto importanti come Les Américains di Robert Frank e Les Allemands di René Burri.
Nel 2002 Barbey decise di chiudere, finalmente, un cerchio e, con decenni di esperienza alle spalle, fece pubblicare il libro in Francia con Delpire, in America con Harry N. Abrams Inc., in seguito, anni dopo, in Italia con Contrasto. La prima edizione francese e americana, però, ha un formato diverso rispetto alle edizioni più recenti e a quella di Contrasto, che segue una forma e una sensibilità editoriale molto più vicino a quella usata da Robert Frank per il suo Les Américains, talmente in sintonia che appare come un vero e proprio omaggio alla storica opera dell’autore svizzero.
Tra i lavori di Frank e di Barbey, al di là della loro veste editoriale, lei riscontra delle assonanze anche stilistiche e narrative?
Se devo fare un confronto tra i due lavori penso che le differenze siano sostanziali. Frank riuscì a cogliere la vastità americana, lo spirito triste di un’America scrutata nelle sue zone d’ombra, la sua immensità orizzontale; Barbey, invece, colse l’Italia attraverso i pertugi dei suoi vicoli e il suo vivere quotidiano, secondo uno sguardo che percepiva il nostro Paese anche secondo certi cliché e stereotipi, come le signore anziane alla porta, i bambini che giocavano per strada, i militari. Barbey, inoltre, cercò la prossimità, il rapporto diretto con il soggetto, mettendone da parte il valore simbolico, su cui invece Robert Frank incentrò il proprio lavoro.
La non appartenenza al paesaggio italiano ha conferito allo sguardo di Barbey qualcosa di specifico, secondo lei?
Certamente. È lampante il suo distacco narrativo, l’uso, a volte, di una certa ironia, anche se poi la sua fotografia, paradossalmente, è una fotografia di “vicinanza”. Il distacco è, forse, più a livello culturale. Sicuramente il suo coinvolgimento non trae spunto dalla nostra tradizione neorealista.
Però c’è qualcosa dell’estetica fotografica italiana nelle immagini de Gli Italiani, come ad esempio Paolo Di Paolo…
Sì, certo. Paolo Di Paolo, Giulia Nicolai che mappa il nostro Paese da Nord a Sud o anche Italo Zannier con Coste e monti d’Italia, 9 volumi finanziati dall’ENI, in cui Zannier documenta, dal 1967 al 1976, viaggiando in macchina, tutta la costa italiana e le principali catene montuose.
Visto che Gli Italiani fu prodotto dal 1962 al 1966 e Barbey entrò nella Magnum nel 1964, si riscontrano, secondo lei, anche le influenze degli autori che facevano parte della storica agenzia?
Certo, quando entrò all’agenzia Barbey iniziò, indubbiamente, ad assimilare uno ‘stile Magnum’. Henri Cartier-Bresson, o anche David Seymour, ad esempio, furono per lui dei modelli fondamentali per cogliere a dovere l’immaginario italiano. Coloro che, ‘in presenza’, lo influenzarono maggiormente furono Henri Cartier-Bresson e Marc Riboud. La prossimità e il focus sulla figura umana, due caratteristiche fondamentali per il modo di narrare degli autori della Magnum, divennero anche per Barbey elementi emblematici della sua autorialità.
Che attinenza c’è tra Gli Italiani e i lavori che Barbey produsse successivamente?
Quello sull’Italia fu il suo primo grande progetto, in cui prese consapevolezza del suo pensiero fotografico e diede forma alla sua prima idea di progettualità. Inoltre, fu il lavoro che gli aprì la strada della carriera professionale consentendogli poi di entrare a far parte di un’agenzia prestigiosa come la Magnum. C’è però da dire che allora il suo stile era ancora a livello embrionale, un ottimo punto di partenza per un cammino che successivamente lo condusse altrove.
Bruno Barbey. Gli Italiani
- A cura di Marco Minuz e Caroline Thiénot-Barbey
- Galleria Harry Bertoia – Corso Vittorio Emanuele II, 60 – Pordenone
- dal 22 dicembre 2024 al 4 maggio 2025
- mer-ven 15-19, sab-dom 10-13/15-19
- intero 10 euro, ridotto 8 euro
- mostra-bruno-barbey-gli-italiani
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