Stia (AR)
Dal 14 giugno al 6 ottobre 2024
Tra le mostre della prima edizione del Festival della Fotografia Italiana, organizzato dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (FIAF) nel comprensorio toscano del Casentino, fino al 6 ottobre 2024, c’è l’esposizione Atlante Umano Siciliano di Francesco Faraci.
Faraci si è preso del tempo per viaggiare lungo la sua terra, la Sicilia, raccogliendone le storie celate, le tradizioni ancorate ad un passato antico, le voci che provengono da lontano, i luoghi accarezzati da una vicinanza umana che l’autore ha saputo cogliere a pieno, riuscendo a rappresentare anche gli spazi aperti come se fossero interni domestici, intimi. Abbiamo chiacchierato con lui per farci raccontare le origini del suo progetto e di come la fotografia rappresenti completamente la sua essenza umana.
Sei nato in Sicilia, a Palermo, il tuo progetto Atlante Umano Siciliano ti ha permesso di conoscere aspetti della tua terra che prima non conoscevi?
Il progetto, che è stato un viaggio vero e proprio, mi ha messo di fronte alla mia ignoranza. Mi sono reso conto di conoscere poco della mia terra. O meglio, di conoscere poco di ciò che riguarda il suo presente. Ho conosciuto i Caminanti, ad esempio, un ramo del popolo Rom ancora dedito al nomadismo nonostante affondi le proprie radici in Sicilia. Ho viaggiato con queste persone per un periodo, studiato il loro dialetto, che è un siciliano caduto ormai in disuso, i loro riti e il loro stile di vita. Ho appreso, poi, la realtà dello spopolamento, soprattutto nella Sicilia più interna. Come ogni viaggio, è stato un processo di conoscenza e crescita, che richiede un certo periodo di tempo perché se ne possano cogliere i frutti.
Per scegliere le tappe del tuo itinerario su cosa ti sei basato e qual è stato il tuo percorso?
Mi sono affidato all’istinto. Conoscevo solo il luogo di partenza, Palermo, non quello di arrivo. Lasciavo che fosse il caso a guidarmi, fermandomi solo quando qualcosa o qualcuno attirava la mia attenzione. Non avevo una meta vera e propria, mi sono dedicato all’idea di viaggio in sé: perdersi, smarrirsi, mettersi alla prova e rischiare persino di non arrivare da nessuna parte.
Che apporto ha dato alla tua narrazione la decisione di percorrere il tuo viaggio a piedi?
In effetti, gran parte del viaggio è stato fatto a piedi e questo, ha proiettato il mio avanzare in una dimensione quasi “spirituale”, in senso ampio, oserei dire in senso ecumenico. I lunghi tragitti obbligano spesso a fare i conti con sé stessi, con la vita e le sue priorità e quando parlo di dimensione spirituale intendo dire, nello specifico, che ogni incontro, ogni abbraccio, ogni sorriso o carezza sono stati un regalo e un privilegio.
Le tue immagini si caricano anche di un certo simbolismo. A cosa si riferisce e dove nasce questo tuo modo di raccontare la Sicilia?
Un certo simbolismo è insito nel racconto di quello che riguarda il Sud e, in modo più ampio, nel racconto del Mediterraneo. Tutto ha un significato: gli incontri, le parole, i gesti. Spesso, questo significato è nascosto e rimanda sempre a qualcos’altro con radici lontane, non facilmente codificabili. Non so nemmeno bene da dove nasca questo mio modo di raccontare perché è sempre stato ed è tutt’oggi insito in quello che sono.
Il mio modo di fotografare è strettamente legato alla mia identità, tanto da non esserci alcuna differenza. Quello che so è che una fotografia nasce da una corda che dentro di me inizia a vibrare, sento come una specie d’eco che rimbomba e mi spinge a scegliere un momento e non un altro. Mi piace pensare che sia una piccola magia.
Al centro delle tue immagini compare l’uomo, incastonato in delle ambientazioni che anche se esterne appaiono come luoghi domestici, familiari. Come metti in dialogo la figura umana con il suo contesto ambientale?
Quello che più mi interessa è scendere nel profondo: mi interessa l’essenza degli uomini e degli spazi che essi abitano. Perché io possa approfondire è necessaria una certa libertà di movimento, un tempo lungo che mi consenta di capire e diventare parte di quegli spazi, fratello delle donne e degli uomini. Ho bisogno di vivere quotidianamente quelle persone e i loro luoghi e trascendere il ruolo del fotografo per essere un uomo in mezzo ad altri esseri umani e condividerne le sorti.
Può sembrare una specie di discorso mistico ma, in generale, se si vogliono raccontare gli esseri umani e le loro storie il coinvolgimento dovrebbe essere totale. Non esistono ricette o decaloghi, semplicemente questo è il mio metodo di lavoro che non è detto vada bene per tutti.
Il tuo lavoro appare ricco di storie private, di traboccante umanità. Hai qualcuna di queste storie da raccontarci?
Considero ogni fotografia come un regalo. Di ognuna di esse ricordo tutto, il prima e il dopo. Soprattutto le atmosfere di certe case, gli odori e quella strana e sempre irripetibile sensazione di un tempo che si annulla. Nello specifico parlo della fotografia della donna con le gambe divaricate [fotografia in apertura di questo articolo, n.d.r.]. Ero entrato in punta di piedi, ho detto alle persone che avevo davanti di non badare a me, di fare come se non fossi presente. Sono rimasto in un angolo per qualche ora. Ho osservato i loro gesti lenti, il loro abituarsi alla mia presenza/assenza. Ero ‘nascosto’ fra il bagno e il corridoio. In quel tempo, di quella umile abitazione, ho assorbito tutto, ho sentito forte la presenza della vita.
Il bianco e nero porta alla mente i grandi maestri che hanno raccontato la Sicilia nei suoi riti e nelle sue tradizioni. Chi o cosa influenza maggiormente il tuo lavoro?
Le mie influenze sono quasi tutte letterarie, più che fotografiche. Da divoratore di libri e da scrittore tendo sempre ad avere quell’approccio che mi porta prima di tutto all’ascolto delle storie che le persone hanno da raccontare. Fotograficamente parlando, però, ho sentito, e ancora oggi sento fortemente, l’influenza di Josef Koudelka, soprattutto nel modo di intendere la fotografia, nella fame quasi disperata di vivere e guardare tutto, nell’amore e la dedizione che ci mette dentro e che sento molto mia.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Francesco Faraci sono disponibili sul suo sito francescofaraci.com.
Francesco Faraci. Atlante Umano Siciliano
- Museo dell’Arte della Lana della Fondazione "Luigi e Simonetta Lombard", via Giovanni Sartori, 2 – Stia (AR)
- dal 14 giugno al 6 ottobre 2024
- gio-dom 10-13/16-19
- ingresso gratuito
- festivalfotografiaitaliana.it
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