Michele Smargiassi si definisce “cresciuto tra figure e storie”. Oggi è un appassionato giornalista e scrittore che racconta la fotografia esortando i consumatori di immagini a non sottovalutare il potere di un medium tanto diffuso quanto poco conosciuto.
“Se conosci la fotografia, non può farti troppo male. Può addirittura aiutarti a comprendere il mondo. Se la lasci fare, se la sottovaluti, ti fregherà”. Sarebbe pretenzioso pensare di ingabbiare in una manciata di battute la capillare riflessione che Michele Smargiassi ha elaborato intorno alla fotografia negli ultimi decenni, ma qualora ci venisse avanzata una simile richiesta ricorreremmo con tutta probabilità alle sue stesse parole, citando le righe con cui si apre questo paragrafo.
Da sempre appassionato di libri e di immagini, giornalista dal 1982, Smargiassi cura – tra le altre cose – il blog Fotocrazia per repubblica.it, un contenitore ricco di spunti che invitano alla riflessione sulle modalità di interazione della fotografia con la vita delle persone. I suoi testi, a prescindere dalla natura del supporto che li ospita, hanno l’impagabile capacità di pungolare il senso critico, solleticare la palpebra dell’occhio della mente e intaccare il radicato meccanismo cognitivo che da oltre centocinquant’anni ci induce a cadere vittime delle “bugie della fotografia”.
Scandagliando con dedizione l’intera evoluzione del medium, Michele ha maturato un pensiero che mette in luce l’incapacità dell’immagine fotografica di disfarsi di scelte e operazioni soggettive che ne compromettono la pura aderenza alla realtà. Di questo e di tanto altro abbiamo conversato con lui al telefono, e ne è scaturita questa intervista.
La fotografia non è in grado di raccontare la verità senza contaminazioni soggettive che avvengono inevitabilmente prima, durante e dopo lo scatto. Quand’è che la menzogna fotografica può essere sana e divertente?
Quando c’è un riconoscimento di onestà pedagogica, perché si tratta di bugie fotografiche che, quando vengono svelate, ci insegnano qualcosa. Il campione di questo modo di usare la fotografia è Joan Fontcuberta, che con la costruzione di falsi molto elaborati induce l’osservatore a porsi delle domande una volta che l’inganno viene dichiarato. I falsi pedagogici ci insegnano a cercare di capire cosa stiamo guardando prima di tuffarci nella cornice di un’immagine, a essere meno creduloni, dunque in questo caso fa piacere essere ingannati perché si impara qualcosa. In generale l’arte inganna sempre, lo scrittore barocco Giovan Battista Marino diceva: “Del ver più bella è la menzogna”. Le bugie ci piacciono quando sono fatte bene, ma naturalmente a nessuno piace essere ingannato e l’elemento del disvelamento dell’inganno deve esserci sempre altrimenti si cade nell’uso sbagliato delle immagini. La fotografia, apparentemente più trasparente e immediata del linguaggio verbale, si porta dietro una fama abusiva di veridicità, ma le menzogne visuali esistono e sono molto pericolose.
Ci fidiamo più delle immagini che delle parole, ma paradossalmente riteniamo più credibili e genuine le fotografie caratterizzate da difetti fotografici che i puristi tenderebbero a rigettare, specialmente in un’epoca in cui la resa qualitativa dei file digitali migliora con estrema rapidità. Da cosa dipende questo fenomeno?
Io faccio parte della generazione dell’Hi-Fi, quella che comprava costosissimi impianti stereo per riprodurre il suono in maniera impeccabile, ma oggi il mito dell’estrema perfezione è diventato un lusso ultraprofessionale, mentre la fotografia a bassa risoluzione è quella che facciamo noi, è quella dei selfie, dei testimoni casuali che si trovano a essere, loro malgrado, dentro a una notizia di cronaca. Le fotografie imperfette danno l’idea di essere state prese spontaneamente, e questo ha fatto sì che l’imperfezione diventasse un connotato della verità. Tuttavia è in corso un’evoluzione tecnologica che saprà presto compensare automaticamente qualsiasi errore possibile. A mio avviso ci renderemo conto che tutti possiamo produrre fotografie ben definite e sarà un bel problema, perché torneremo a pensare che la perfezione sia la realtà, non ci accorgeremo che stiamo scattando foto fatte non da noi, ma dagli ingegneri che hanno progettato i dispositivi e saremo più vulnerabili agli inganni.
Ma non potrebbe accadere che proprio questa consapevolezza delle capacità dello strumento, che pongono il risultato perfetto alla portata di chiunque, ci porti sulla strada opposta, ossia a non fidarci più delle immagini?
È un’altra possibilità, ma al momento questo non sta succedendo. La consapevolezza che possiamo manipolare le immagini esiste già da tempo: applichiamo filtri, lisciamo la pelle e facciamo interventi di altra natura. Eppure non riusciamo a riconoscere la manipolazione delle fotografie che ci arrivano dall’esterno. La fotografia come esperienza personale e la fotografia come comunicazione pubblica non si toccano, non riusciamo a far combaciare i due piani e continuiamo schizofrenicamente a sapere che le fotografie possono essere manipolate e a credere, ciò nonostante, che le foto che vediamo rappresentino sempre qualcosa che è successo davvero. Su questo i manipolatori fanno grande affidamento.
Tre immagini tratte dalla serie Fauna di Joan Fontcuberta e Pere Formiguera, un progetto con cui i due autori mettono in scena il ritrovamento dell’archivio di uno scienziato in realtà mai esistito.
Sarebbe dunque opportuno preparare i giovani a un nuovo approccio alla fotografia, insegnare loro a osservare le immagini con l’attenzione che meritano piuttosto che limitarsi a produrne quantità smisurate in maniera quasi compulsiva?
I nostri figli e nipoti sanno perfettamente come funziona la fotografia, ma bisognerebbe aiutarli a collocarla dentro la Storia, far capire loro che si tratta di un protocollo tecnico abbastanza recente che si aggiunge a una tradizione che ha decine di migliaia di anni, e che le immagini sono un mezzo di espressione, di scambio di sapere e conoscenza tra esseri umani. Bisogna capire come funziona questo linguaggio che si presenta come immediatamente accessibile, evidente e trasparente, ma di fatto non lo è perché contiene tutte le nostre connotazioni. È bene che i giovani imparino che esistono molti modi per usare questo strumento, ciascuno con le sue regole, i suoi problemi etici, il suo impatto sull’individuo e sulla società.
In un articolo del blog che curi per il quotidiano la Repubblica affronti l’argomento della diffusione della fotografia tramite smartphone, all’interno del videogame GTA, una realtà virtuale in cui chiunque può vivere una vita parallela, prendere parte a scene uniche e irripetibili, e fare una bella scorpacciata di momenti decisivi. Cosa ne direbbe, secondo te, un ipotetico Henri Cartier-Bresson proiettato nel XXI secolo?
Henri Cartier-Bresson era un personaggio abbastanza imprevedibile nei suoi giudizi. Una volta scrisse di aver visto una serie di fotografie fatte da un orango, commentando che non erano niente male, perciò è tutt’altro che semplice ipotizzare come reagirebbe in una situazione stravagante. I personaggi di GTA possono scattare fotografie in qualsiasi momento e quelle immagini possono essere scaricate, stampate e collezionate. Si può, in un certo senso, praticare della street photography, ma di fatto nel videogame non c’è nulla che non sia stato previsto dagli architetti del gioco. Non ci sono attimi in cui la realtà per una sorta di incantesimo si coagula per un solo istante nella forma della perfezione, dunque non esistono effettivi momenti decisivi. Tutto ciò che appare spontaneo è in realtà una messa in scena, e a Cartier- Bresson la messa in scena faceva orrore.
Alcune immagini tratte dal volume West of Here di Leonardo Magrelli che ha raccolto sul web, riordinato, tagliato e convertito in bianconero una serie di “fotografie” scattate dagli utenti del videogame Grand Theft Auto V. Il processo eseguito dall’autore fa sì che le immagini perdano la loro evidenza virtuale, rendendo ancora più difficoltosa la distinzione tra vero e falso.
L’idea di ipotizzare la reazione di un maestro del passato a un contesto fotografico attuale è nata dalla lettura del tuo ultimo libro "Voglio proprio vedere", in cui conduci delle interviste immaginarie a icone della storia della fotografia scardinando molti stereotipi, e inducendo il lettore a porsi molte domande…
Per scrivere le interviste impossibili mi sono documentato molto. Il libro nasce dalla percezione che una volta saputo tutto su un autore manca ancora qualcosa: non sappiamo completamente chi ci fosse dietro a quelle macchine fotografiche. Lo scopo era andare oltre la soglia, così alle parole che gli autori hanno pronunciato o scritto veramente ho aggiunto qualcosa di mio attravrerso l’immaginazione, rendendoli anche un po’ dei miei personaggi. Ho provato a ricostruire delle biografie entrando nel territorio dell’ignoto che ci separa sempre da un’altra persona. Il lettore non può distinguere le citazioni da quanto ho inventato, però sa, ancora prima di aprire il libro, che tutto quello che leggerà, come diceva Robert Capa, “potrebbe avere qualcosa a che fare con la verità”. Questo lavoro mi è servito per interrogare me stesso su cosa pensiamo sia la fotografia.
Le copertine dei due libri scritti da Michele Smargiassi, entrambi pubblicati con Contrasto.
Credi che le immagini statiche verranno, prima o poi, soppiantate dal video?
La fotografia ha avuto una quantità di necrofori impressionante, è stata dichiarata morta parecchie volte nel corso della sua storia: con l’invenzione del cinema, della televisione, di internet. Ma non è mai morta, nemmeno quando dichiarata ammazzata dalle immagini in movimento. C’è qualcosa nell’immagine fissa che evidentemente funziona, non sappiamo cosa, ma ne abbiamo ancora bisogno. Noi non ricordiamo icone in movimento. Dell’abbattimento delle Torri Gemelle non ricordiamo un film, ma sostanzialmente un’immagine fissa. Qualcosa nella nostra memoria richiede immagini statiche, configurazioni stabili. C’è un principio di economia nel processo del ricordo, memorizzare immagini in movimento per ogni episodio richiederebbe uno sforzo incredibile.
A proposito di cose che accadono anche se non ce le spieghiamo in maniera del tutto razionale, qual è il tuo punto di vista sul futuro della fotografia analogica? L’attuale ondata di interesse per la pellicola è destinata a crescere, a smorzarsi o a sparire del tutto?
Conosco fanatici del collodio umido, della cianotipia e addirittura persone che realizzano dagherrotipi. È molto raro che i medium muoiano del tutto, piuttosto vengono privati di molte funzioni ma ne mantengono altre che possono anche diventare ludiche e fonte di divertimento. Conosco degli immigrati analogici, nativi digitali che sbarcano sul territorio della pellicola come se fosse un pianeta sconosciuto e si divertono, perché scoprono cose che non conoscevano, come il tormento dell’attesa dell’esito, e di poterle usare in maniera espressiva. Scegli il vecchio medium perché ti dà cose che il medium corrente non sa darti. Io credo che il futuro stia nell’ibridazione tra i due. La tecnologia, secondo me, se compresa e usata bene e non in maniera autoritaria, allunga la tastiera del pianoforte, non la riduce.
Bio
Michele Smargiassi nasce a Dovadola (FC) nel 1957, ma considera il suo paese natale quello in cui è vissuto fino all’età di otto anni: Rocca San Casciano (FC). Da bambino osserva il papà tra le vaschette e i liquidi della camera oscura e da lui eredita una Voigtländer, che utilizza per tanto tempo prima di passare ad altre fotocamere analogiche con le quali, da fotoamatore, si diverte ottenendo risultati gratificanti. Si laurea in Storia contemporanea all’Università di Bologna, lavora per l’Unità dal 1982 e per la Repubblica dal 1989, testata per la quale cura il blog Fotocrazia dal 2009. Scrive testi per mostre, libri e cataloghi, ed è autore di diversi libri tra cui Voglio proprio vedere (2021), Sorridere. La fotografia comica e quella ridicola (2020) e Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso (2009), tutti pubblicati con Contrasto. Tiene lezioni e corsi in scuole, università e circoli culturali, e ha insegnato nei master della Fondazione Fotografia di Modena e della Scuola Raffles di Milano. Fa parte del consiglio direttivo della Società italiana di studi di fotografia, del comitato scientifico del Centro italiano per la fotografia d’autore di Bibbiena (AR) e del comitato scientifico della Fondazione Nino Migliori di Bologna.
Quella con Michele Smargiassi rientra nel piano di interviste d’autore realizzate da FOTO Cult con il prezioso supporto di EIZO Academy. L’iniziativa di alto valore tecnico e culturale voluta da EIZO vede protagonisti studiosi della fotografia e professionisti di fama internazionale.
Per restare sempre aggiornati sui prodotti e sulle iniziative EIZO è possibile iscriversi alla newsletter. Via mail verranno comunicate tutte le novità relative ad attività, prodotti, contenuti formativi ed eventi speciali.