Tra tutti gli autori del panorama internazionale, Jan Saudek è uno di quelli con lo stile più personale, inconfondibile e impossibile da imitare. Eppure sembra che la celebrità continui a sfiorarlo senza mai toccarlo in pieno, come se dovesse restare per sempre avvolto dalla penombra. La stessa che ammanta tutte le sue opere.
Una delle cose più sorprendenti quando si raccolgono informazioni sulla vita e sulla carriera di Jan Saudek, nato a Praga nel 1935, è che su di lui nella rete si trova poco, sia in italiano, sia in inglese. Il che è abbastanza inspiegabile in quanto musei e collezioni private hanno aperto le porte alle sue opere già mezzo secolo fa. È come se sui suoi ritratti aleggiasse ancora la coltre di censura che li aveva avvolti all’inizio della sua carriera, quando il regime oscurantista delle autorità cecoslovacche lo aveva costretto a lavorare in clandestinità, rinchiuso dentro alla sua cantina. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e oggi Saudek è considerato uno dei maggiori artisti viventi della Repubblica Ceca, tanto che su di lui sono anche stati girati dei film, fra i quali vale la pena di ricordare il biopic Fotograf del 2015 (trailer su YouTube) e il documentario Jan Saudek: Bound by Passion del 2008.
Jan Saudek e l’Italia
Fu in Italia che Saudek trovò sostegno quando era ancora agli esordi, dato che una delle sue prime monografie fu pubblicata a Monza nel lontano 1981 per i tipi di Selezione d’Immagini: un volume intitolato Il Teatro della Vita e contenente solo ventotto illustrazioni, ma impreziosito dall’introduzione di Giuliana Scimé, critica della fotografia scomparsa lo scorso settembre nell’indifferenza generale, come d’altra parte succede spesso a coloro che passano più tempo immersi nella ricerca che nell’organizzazione di notti bianche e aperitivi all’interno delle gallerie. Il libro è sicuramente immancabile nella biblioteca degli estimatori di Saudek, nonostante non possa essere considerato uno dei più rappresentativi del suo stile. Infatti le immagini in esso riprodotte sono in bianco e nero, che pur essendo un linguaggio impiegato dall’autore resta comunque marginale nella sua produzione, dato che è con il colore che l’autore si esprime di preferenza. E nel suo caso si tratta di ben altro che del semplice utilizzo di pellicole a colori, in quanto il suo processo creativo comprende degli interventi sulle stampe che trascendono le foto stesse e lo collocano in uno spazio interstiziale tra la fotografia e la pittura.
Tecnica da alchimista
Osservando le opere di Jan Saudek si ha l’impressione di fare un viaggio nel tempo. Non solo perché i soggetti dei suoi ritratti spesso indossano costumi che ricordano gli abiti di fine Ottocento, e nemmeno perché le stanze in cui li fa posare evocano qualche pagina della letteratura di quella stessa epoca. Ciò che riporta al passato, nelle sue immagini, è la tecnica con cui le realizza: un procedimento tutto sommato semplice ma che risale alla prima fase della storia della fotografia, quando gli strumenti del mestiere erano limitati e si doveva essere più alchimisti che artisti. Infatti i suoi scatti nascono in bianco e nero o con un viraggio seppia e solo in un secondo momento, Saudek aggiunge il colore con l’uso di un pennello, agendo esattamente come quando le pellicole a colori non erano ancora state inventate o il loro utilizzo era troppo costoso o laborioso.
Il risultato ricorda i tentativi di oltre un secolo fa di rendere un’idea di realismo che non doveva replicare le sembianze del mondo ma piuttosto lavorare per suggestione, facendo riemergere nell’immaginazione dell’osservatore la sua quotidiana esperienza della realtà. È il caso, per esempio, di certi paesaggi e ritratti giapponesi della fine del diciannovesimo secolo.
Tuttavia va notato che per Saudek sovrapporre il colore alle proprie foto è più un gesto espressivo che di necessità, trattandosi di un intervento pittorico che va oltre il semplice vezzo stilistico. Le pennellate conferiscono drammaticità ai suoi scatti, riproducendo meno tonalità rispetto a quelle che possono essere registrate da una normale pellicola o dal sensore di una macchina fotografica digitale. Se lo sfondo di molte sue opere non fosse un muro grezzo, con tutte le scabrosità e macchie, ma fosse invece il tradizionale fondale monocromo senza imperfezioni, allora tante delle sue stampe – soprattutto quelle più contrastate – potrebbero ricordare delle serigrafie. Ma i ritocchi che l’autore apporta gli offrono anche un altro vantaggio, cioè quello di poter giocare con le fonti di luce, o per meglio dire di illuminare i suoi soggetti a piacimento, facendo emergere alcuni dettagli e lasciandone altri in una penombra crepuscolare.
Mondo Saudek
A dire la verità gran parte della produzione di Saudek trasmette un senso di cupezza, sia per i toni scuri prediletti dall’autore sia per le atmosfere di decadenza che fanno da cornice alle storie che racconta. Queste ultime si svolgono in stanze squallide e hanno come protagonisti individui che espongono i propri corpi quasi fossero merce in vendita, tanto che quando nell’inquadratura ci sono due o più persone viene naturale pensare che tra di esse intercorra un rapporto di possesso materiale più che di complicità. È questo il mondo in cui Jan Saudek proietta i suoi ammiratori da mezzo secolo: un mondo chiuso tra quattro mura nel quale si mischiano erotismo e inquietudine mentre svanisce la linea di confine tra fotografia e pittura.
Tutte le fotografie pubblicate in questo articolo sono state esposte fino al 10 dicembre 2022 in occasione della mostra Jan Saudek. Photographs 1955-1995, presso la Galerie Johannes Faber di Vienna.