È iniziato tutto da un cassetto, “uno di quei cassetti senza rotelle”, ci racconta Elena Zottola, “pesanti da aprire perché il legno scorre direttamente su altro legno. Mi ha sempre stupita quanto fondo fosse quel cassetto, ed ero felicemente meravigliata di quante lettere e fotografie contenesse”. Da quel cassetto proviene la maggior parte delle fotografie d’archivio incluse nel progetto Stanotte il cielo è un mandorlo fiorito, menzione speciale del Premio Musa Fotografia 2025 e vincitore del Premio FOTO Cult nell’ambito dello stesso concorso.
Il cassetto fa parte della scrivania dello studio della casa in cui la nonna di Elena è cresciuta insieme ai suoi fratelli, in Basilicata. Per una serie di dettagli, quella stanza dai mobili antichi, ma minimali, affascina la fotografa da sempre. Dal cassetto e da alcuni armadi della stessa casa son saltate fuori fotografie di famiglia intorno alle quali Elena ha deciso di costruire un portfolio che mette in dialogo passato e presente, stimolando una riflessione sul legame tra identità e luoghi.
Abbiamo parlato con lei del suo progetto, un lavoro che indaga la possibilità degli abitanti del Sud Italia di costruire un futuro nella propria terra d’origine.
Quanto ne sai a proposito delle persone ritratte nelle foto d’archivio della tua famiglia?
Ho chiesto molto spesso chi fossero le persone ritratte nelle immagini quando non ero in grado di riconoscerle. Nel tempo passato con i miei familiari, questa attività è sempre stata utile per ricucire quella rottura operata dai passaggi generazionali e dai cambiamenti sociali. Nel tempo, c’è stata una trasformazione profonda nelle società tradizionali italiane, insieme a un depauperamento della vita agricola e comunitaria delle aree rurali. Come in una dinamica coloniale, nuovi pensieri provenienti da lontano, talvolta imposti, talvolta liberamente adottati, hanno gettato nell’ombra i saperi tradizionali, allontanando le persone dal contatto diretto con l’ambiente naturale. Credo sia necessario un attivismo dell’abitare e reputo doveroso investire in queste aree, puntando al loro ripopolamento.
Qual è lo scopo del tuo progetto fotografico?
Non è un racconto diretto quello che voglio fare, ma un racconto di presenze che popolano questo mondo periferico, con i loro volti, corpi, ricordi, forse anche parole e dettagli di vita. Non punto a un racconto esplicito, piuttosto vorrei evocare l’immaginario entro cui quelle vite hanno vissuto e che rivive in me, nella mia esperienza, la quale si fa sintesi dell’esperienza collettiva della mia generazione proveniente dall’area rurale.
Come scrive l’antropologo Arjun Appadurai: “dovremmo iniziare a vedere tutta la documentazione come parte di una qualche forma di progetto collettivo. Più che la tomba della traccia, l’archivio è spesso il prodotto delle aspettative della memoria collettiva e quindi incarna, per così dire, un’attesa piuttosto che una memorizzazione”.
Qual è la tua relazione con la Basilicata?
Sono nata a Latronico (PZ) nel 1995 e sono stata costretta ad emigrare verso il nord Italia da ragazzina. Come tanti che se ne sono andati vivo un limbo, non sono né di qui né di lì. Ho deciso di ritornare a vivere in Basilicata per via di una scelta esistenziale, quella di non accettare che la centralizzazione delle risorse lasciasse morire dei luoghi, ma anche per una necessità identitaria: la necessità di sanare la rottura che ho vissuto e continuo a vivere.
Anche la volontà di realizzare questo progetto nasce dallo stesso sentimento, dalle domande diffuse tra i giovani della mia età provenienti da luoghi come il mio, che si chiedono quale immaginario li rappresenti, cosa questo immaginario racconti di loro e quale forma si possa dare alle malinconie, all’ingiustizia, all’affezione e alla disaffezione per il luogo in cui si è nati.
A proposito di “Stanotte il cielo è un mandorlo fiorito” dici che si tratta di un autoritratto. Perché?
Perché sento che la mitologia familiare entro cui si colloca è parte di me; i personaggi ritratti popolano il mio mondo e popolano me stessa, ed è a loro che chiedo chi sono e chi posso diventare.
Ci racconti qualcosa delle fotografie scattate da te per questo portfolio? Pare abbiano un’impronta totalmente differente rispetto agli scatti d’archivio. Ad esempio non compaiono volti riconoscibili…
Le foto d’archivio raccontano un mondo che di fatto sta pian piano scomparendo, ma che vive e si trasforma nel mio portato personale e, attraverso il filtro della mia ricerca etnografica e visiva, si tramuta in una bellezza nuova.
Sono stata molto affascinata dai ritratti delle persone immerse tra i cespugli, nell’erba alta o sui rami degli alberi, vi ho visto un peso simbolico, quasi premonitore: molte di quelle case sono ora abbandonate, inghiottite dalle piante insieme al ricordo delle vite che hanno ospitato.
Alcune di quelle case di campagna sono state le ambientazioni delle fotografie che ho scattato poco prima che divenissero edifici disabitati a causa della morte di qualcuno, della stanchezza, dell’emigrazione in cerca di una vita più comoda.
Il passato sembra più presente del presente stesso. È per questo motivo che non ci sono sguardi diretti o volti riconoscibili nelle nuove immagini che ho realizzato, ma solo l’attenzione a una realtà ferita, che ancora custodisce forza e bellezza.
Cos’è il progetto “A Cielo Aperto in una stanza”?
È un lavoro di residenza curato da Pasquale Campanella e Bianco-Valente con l’Associazione Vincenzo de Luca, la quale, da vent’anni a questa parte, opera, attraverso gli strumenti dell’Arte Contemporanea nei territori marginali.
È stato durante uno dei laboratori condotti dall’Associazione che ho sentito il desiderio di esplorare la questione identitaria nelle aree rurali. L’innesco è stato il commento di una partecipante: ‘questi posti oggi non sono fatti soltanto di quel che c’è o non c’è più, ma di tutto quello che abbiamo riportato qui’.
‘A Cielo Aperto in una stanza’ è stato un modo per lavorare con una famiglia del paese di Latronico, una famiglia italo-siriana che mi ha dato la possibilità di scoprire come l’incontro culturale arricchisca e ridefinisca le comunità locali. Grazie al progetto ho potuto sperimentare una forma di arte relazionale, lavorando in collaborazione con una famiglia alla quale ho poi lasciato la mia opera composta di una fotografia e di un tappeto stampato che simula la produzione di fotografie di famiglia stampate su oggetti domestici.
La presentazione del tuo lavoro si conclude con una domanda che rivolgiamo a te: la Lucania può ospitare il futuro?
Mi sento di rispondere ulteriormente con una domanda: le città e i grandi centri possono ospitare il futuro?
Ulteriori informazioni sul lavoro di Elena Zottola sono disponibili sul sito elenazottola.com.
Le vincitrici del Premio Musa 2025 sono Chiara Innocenti (Ricerca), Luciana Trappolino (Ritratto), Martina Simonato (Reportage), Elena Zottola (Menzione) e Marialucia Campanella (Menzione).
musafotografia.it
Golden Odyssey. Un reportage fotografico sulle identità contrastanti del Montenegro
Alessia Capasso vince la sezione “Reportage”...
Dalle “belve feroci” agli ologrammi: fotografare il circo per raccontarne la magia e l’evoluzione
Chiara innocenti, Menzione d’onore del Premio...
Le donne fotografe sul podio del Premio Musa 2024
Annunciate le vincitrici della sesta edizione...
Cuba non è un luogo. Cuba è uno stato d’animo
Il fotografo bolognese Fulvio Bugani racconta...
Premio Musa 2022: FOTO Cult premia la “Tempra”
Nell’ambito del Premio Musa 2022, FOTO...
Flood Me, I’ll Be Here: la storia dell’isola inghiottita dal fiume sacro
András Zoltai fotografa la società dell’isola...






















