Groningen (Paesi Passi)
Dal 19 settembre al 19 ottobre 2025
Nel 2025 il World Press Photo compie settant’anni. Per ripercorrere la storia del concorso e riflettere su come le immagini premiate in sette decenni abbiano contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni globali critiche, la World Press Photo Foundation ha in programma una mostra che include più di cento scatti realizzati da fotografi del calibro di Horst Faas, Don McCullin, David Chancellor, Eddie Adams, Steve McCurry, Johanna Maria Fritz e Sara Naomi Lewkowicz, solo per citarne alcuni.
L’esposizione, a cura dell’artista e fotografa Cristina de Middel, si intitolerà What Have We Done? Unpacking 7 Decades of World Press Photo e sarà inaugurata il 19 settembre presso la Niemeyerfabriek, a Groningen, nei Paesi Bassi.
Sono previste tappe successive della mostra a Johannesburg (Sud Africa) e in altre città non ancora rese note.
Il World Press Photo riesamina il proprio archivio fotografico
In occasione di un anno speciale, dunque, Il World Press Photo si è dedicato a un attento esame del proprio archivio, si è confrontato con le scelte visive fatte nel corso degli anni e ha fatto il punto della situazione rispetto agli schemi visivi ricorrenti delle varie edizioni del concorso.
What Have We Done? Vuole essere un invito a riflettere su quegli schemi che si ripetono in epoche diverse, sugli stereotipi o sulle storie che non sono state raccontante abbastanza.
What Have We Done? Unpacking 7 Decades of World Press Photo
La mostra What Have We Done? Unpacking 7 Decades of World Press Photo spinge il pubblico a ragionare su come si è evoluto il linguaggio visivo del fotogiornalismo e su come noi, in quanto spettatori, dovremmo imparare a leggere le immagini, auspicabilmente con un occhio più acuto e critico.
La mostra è costruita proprio attorno a sei schemi visivi ricorrenti individuati nell’ampio archivio del World Press Photo e che la Fondazione ha accuratamente descritto come riportato di seguito.
Donne che piangono e uomini che salvano
Le storie raccontate dalle fotografie nell’archivio del World Press Photo seguono spesso uno schema in cui le donne piangono e gli uomini prestano soccorso; i volti femminili sono rigati di lacrime, mentre gli uomini sono ripresi in azione, mentre trasportano feriti o impartiscono ordini. Queste immagini modellano il nostro modo di pensare ai ruoli di genere durante i conflitti e le tragedie e rafforzano gli stereotipi sulla vulnerabilità femminile.
Soldati emotivi e macerie
La copertura stampa della guerra segue spesso un copione familiare: soldati prevalentemente bianchi, appaiono nell’archivio in momenti di stanchezza o contemplazione, in immagini che li umanizzano lasciando invisibili le loro azioni sul campo di battaglia. I soldati con la pelle più scura sono più frequentemente mostrati in combattimento, rafforzando narrazioni di aggressione e disumanizzazione. Queste scelte creano uno squilibrio nella documentazione e influenzano la percezione di chi appare come vittima e chi è inquadrato come una minaccia.
Allo stesso tempo, la distruzione è spesso estetizzata. I detriti di guerra si trasformano in composizioni suggestive, allontanando gli spettatori dal costo umano della violenza. In questo approccio visivo riecheggia il linguaggio cinematografico di Hollywood, dove il conflitto è romanzato per risultare più facile da digerire.
Enfatizzando i fardelli emotivi dei soldati e astraendo al contempo le conseguenze delle loro azioni, queste immagini modellano una narrazione che semplifica la guerra, rendendola familiare piuttosto che inquietante.
Essere un uomo ed essere una donna
Nelle rappresentazioni mediatiche gli uomini appaiono costantemente come atleti trionfanti, leader determinati, forze protettive nei momenti di crisi. Le donne, al contrario, occupano ruoli visivi più limitati, appaiono come elementi decorativi, figure che rispondono emotivamente, custodi od oggetti del desiderio. Nelle tragedie, le donne diventano simboli di sofferenza piuttosto che agenti di cambiamento. Questi modelli visivi riflettono e normalizzano specifiche aspettative di genere e modellano attivamente l’opinione pubblica.
La pelle nera e il “Continente Nero”
I media e la cultura occidentali hanno a lungo inquadrato l’Africa come un luogo esotico e inconoscibile. Questa prospettiva è rafforzata da immagini ricorrenti di leader ritratti in modi che ne minano l’autorità e da un’attenzione schiacciante alla guerra, alla carestia e alla sofferenza. Scarseggiano, purtroppo, le storie che costruiscano rispetto, sfumature o fiducia in un continente molto più complesso di quanto i racconti tradizionali suggeriscano.
Altrettanto persistente nell’archivio del World Press Photo è la fascinazione per la pelle nera in sé. I primi piani si soffermano sulla sua texture come se stessero osservando qualcosa di sconosciuto, riecheggiando le rappresentazioni dell’era coloniale in cui i corpi africani erano trattati come esemplari piuttosto che come individui. Questa curiosità estetica, unita a un linguaggio visivo limitato e ripetitivo, continua a plasmare il modo in cui l’Africa e la sua gente vengono percepite, riducendo una realtà vasta e diversificata a una cornice ristretta e distorta.
Sagome e Ombre - Il momento ‘Wow’
I fotografi imparano a vedere ciò che gli altri non colgono – come una sagoma fugace, un’ombra momentanea, una perfetta collisione di forma e luce – e la loro abilità sta nel congelare il tempo nel suo momento più espressivo. Questa ricerca del momento decisivo è ciò che rende la fotografia forte e piacevole.
Tuttavia, l’uso della bellezza — cioè di inquadrature attentamente composte, ombre proiettate, contrasti drammatici e precisione estetica — nelle immagini di conflitto o sofferenza solleva domande difficili.
Ad esempio sarebbe opportuno domandarsi in quali casi l’impatto visivo aiuta la nostra comprensione e quando invece rischia di trasformare il dolore in spettacolo. In certi contesti, la bellezza può creare distanza, rendendo l’orrore stranamente gradevole, persino poetico; può aiutare a dare un senso al caos, o può nasconderne l’essenza.
Fuoco e Fumo
Il fuoco e il fumo sono da tempo simboli di caos e trasformazione e nel fotogiornalismo fungono da inconfondibili indicatori di crisi, trasformando i momenti di conflitto e disastro in immagini potenti. Una nuvola di fumo all’orizzonte segnala la distruzione prima ancora che veniamo a conoscenza dei dettagli.
La presenza del fuoco in un’immagine aggiunge un senso di urgenza e a volte persino una sorta di tragica bellezza. Man mano che immagini di questo tipo si ripetono nel tempo, diventano parte di un linguaggio drammatico consolidato, rafforzando il modo in cui ci figuriamo lo sconvolgimento e la perdita.
Le parole di Joumana El Zein Khoury
Joumana El Zein Khoury, Direttore Esecutivo del World Press Photo, ha dichiarato: “Questa mostra è stimolante, critica, illuminante, riflessiva e piena di speranza. Offre una prospettiva nuova sull’archivio del World Press Photo, ma segna anche la prima volta che invitiamo un curatore esterno a esplorare la nostra storia in questo modo. […] Esaminando gli schemi visivi ricorrenti, il nostro obiettivo è creare uno spazio per la riflessione collettiva e il dialogo aperto. Scegliendo di aprire il nostro archivio in questo modo, scegliamo anche di essere vulnerabili e lo facciamo con la convinzione che riconoscere il nostro passato – nei suoi punti di forza e nei suoi difetti – sia essenziale se vogliamo imparare, evolvere e fare meglio. Comprendendo da dove veniamo, possiamo navigare in modo più attento verso dove stiamo andando”.
Noorderlicht, una delle principali piattaforme dedicate alla fotografia e altri media visivi, è partner della mostra What Have We Done? Unpacking 7 Decades of World Press Photo.
What Have We Done? Unpacking 7 Decades of World Press Photo
- A cura di Cristina de Middel
- Niemeyerfabriek, Paterswoldseweg, 43 – Groningen (Paesi Passi)
- dal 19 settembre al 19 ottobre 2025
- mar-sab 10-17, dom 12-17. Lunedì chiuso
- ingresso gratuito
- noorderlicht.com
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