Visto in un’ottica estetica e di linguaggio fotografico Why Am I Sad di Dana Stirling appare come un libro animato da immagini concettuali, astratte, compositivamente ben congegnate, ma non è solo questo. Spesso si dice che non sia necessario, soprattutto se ci si ritrova davanti a questo tipo di fotografie, venire a conoscenza della storia che c’è dietro, aggiungere alla componente visiva una descrizione di cosa si sta guardando. Eppure, il lavoro di Stirling acquisisce valore proprio in virtù della storia di vita che racconta, una storia, quella dell’autrice, in cui la fotografia risulta essere la medicina alla depressione e il modo per liberarsi da un peso interiore che se inespresso risulterebbe altamente nocivo. Le immagini di Why am I sad sono testimonianza del valore terapeutico della fotografia e di questo abbiamo parlato con l’autrice.
Cosa ti ha spinto, inizialmente, a prendere in mano la macchina fotografica e fotografare?
Fin da giovane mi sono ritrovata a documentare costantemente i miei amici con una piccola macchina fotografica digitale che portavo ovunque. Più tardi, quando i cellulari hanno iniziato ad avere la fotocamera, tutto è stato ancora più semplice. È stato solo nella mia adolescenza, però, che ho iniziato a riflettere seriamente su ciò che mi interessava e su cosa volevo fare della mia vita. In seguito, sperimentando con la fotografia in modo più artistico ho cominciato a pensare che quella poteva essere una pratica da sviluppare ed esplorare.
Nel libro indichi la fotografia sia come salvatrice, sia come aguzzino. Perché?
Per me, la fotografia è sempre stata, in fondo, una forma di comunicazione. All’inizio non si trattava di parlare agli altri, ma a me stessa. La mia mente è un flusso costante di dialoghi, sempre in corsa, sempre in ascolto. Raramente c’è un momento di silenzio dentro di me e la fotografia è diventata un modo per mettere a tacere quel rumore, non silenziandolo, ma dandogli forma. Mi ha permesso di dialogare con la mia voce interiore, di dare un senso al caos, di tradurre le emozioni in immagini. La fotografia è stata uno strumento per elaborare le emozioni che spesso sembrano troppo opprimenti per essere definite. Attraverso di essa, ho trovato un modo per connettermi con il mondo esterno, non solo per mostrare come vedo le cose, ma per offrire uno scorcio di come le provo.
Con il passare degli anni, convivere con depressione e ansia ha fatto sì che il momento creativo diventasse per me sia un bisogno che un peso. Il desiderio di creare immagini non mi abbandonava mai, ma la capacità di agire su quel desiderio a volte svaniva. Sentivo il peso delle idee non scritte, delle immagini non realizzate, e iniziavo a dubitare di me stessa. Quando non scattavo mi sentivo in colpa e quando mi sentivo in colpa diventava più difficile scattare. Il ciclo si alimentava da solo, silenziosamente e con insistenza.
Il mio rapporto con la fotografia è complicato, forse perché è così profondamente intrecciata con il mio mondo emotivo. La fotografia è sia il mio rifugio che la mia lotta, mi salva e mi perseguita, mi ascolta quando nessun altro lo fa, ma pretende anche cose che non sempre sono in grado di dare. Eppure, nonostante tutto, ci torno anche quando non ne ho voglia, semplicemente perché ne ho bisogno. La fotografia è il modo in cui do un senso alla mia presenza. E forse è questo che la rende mia.
In che periodo temporale hai prodotto le immagini di Why Am I Sad?
Per molti versi, credo di aver sempre creato immagini per questo progetto, anche molto prima di conoscerne l’esistenza. I temi mi accompagnano da sempre: la famiglia, la depressione e, più intimamente, il rapporto con mia madre. Questi fili attraversano silenziosamente il mio lavoro fin dagli anni dell’università. Ripensandoci, mi rendo conto che anche nei lavori precedenti si intravedevano scorci, sussurri di questa narrazione più profonda che cercava di formarsi.
È solo negli ultimi anni che il progetto ha iniziato a prendere forma con maggiore chiarezza, diventando lentamente qualcosa di specifico e coeso. Nel libro, le prime immagini risalgono al 2015 e si estendono fino al 2023.
Parli di ereditarietà del trauma, del fatto che anche tua madre soffrisse di depressione e che questo peso sia una questione familiare che passa di generazione in generazione. Anche il patrimonio visivo, il guardare il mondo, ha un valore epigenetico. Pensi che la tua visione del mondo, attraverso la fotografia, appartenga in qualche modo anche a tua madre?
A essere sincera, non credo che io e mia madre viviamo il mondo allo stesso modo. Quello che intendo è che la sua depressione, il suo dolore e il suo silenzio hanno plasmato l’atmosfera in cui sono cresciuta, hanno alterato le dinamiche familiari e, di conseguenza, hanno plasmato me. Non per cattiveria o intenzione, ma per gravità. La sua tristezza è diventata il peso attorno a cui ruotava tutto e per molto tempo ho portato con me rabbia e risentimento per questo. Sono diventata una persona diversa a causa delle sue lotte, a causa di ciò che è rimasto inespresso e irrisolto. Siamo intrecciate – geneticamente, emotivamente, intimamente. Condividiamo una tristezza, sì, e per certi versi siamo simili. Ma penso anche che siamo molto diverse, o forse spero che lo siamo.
Mi piace credere di aver tracciato la mia strada, anche se è iniziata entro i limiti che lei ha involontariamente posto e pensare di aver fatto qualcosa che lei non ha mai potuto fare appieno: vivere. Bisogna parlare, dare un nome al dolore, trasformarlo in qualcosa, senza nascondersi. Quindi sì, forse hai ragione: io e mia madre condividiamo qualcosa, ma per me, la fotografia è sempre stata mia ed è sempre esistita al di fuori dei confini della famiglia, al di fuori della pesantezza. È l’unica cosa che ho costruito interamente da sola, nonostante tutto. È il posto in cui vado per sentirmi libera, per sentirmi ascoltata, per sentire di esistere al di là delle ombre da cui provengo.
Nel tuo libro ci sono molti dettagli che tornano: insegne, smile, posizioni, prospettive, il manifestarsi della natura…
Credo che la ripetizione sia sempre stata un mio istinto silenzioso. Gli elementi ricorrenti non sono solo motivi visivi, sono una sorta di struttura che ho costruito per me stessa nel tempo. Quando il contenuto emotivo dell’opera sembra travolgente o astratto, questi dettagli mi danno qualcosa a cui aggrapparmi. Sono come punti di riferimento visivi a cui torno, consciamente o inconsciamente, per orientarmi. In un certo senso, diventano un linguaggio. Un modo per dire: ‘Sono già stato qui’, oppure: ‘Questa sensazione ha una forma, un luogo’.
Non si tratta sempre di documentare la realtà, ma di creare un ritmo, qualcosa di costante nel caos. C’è un linguaggio negli oggetti, nelle composizioni, in ciò che viene scelto e in ciò che viene omesso. È difficile spiegare a parole ciò che accade inconsciamente: quali decisioni vengono prese intuitivamente, quali emozioni si intrecciano senza che io me ne renda nemmeno conto.
Il tuo libro, per chi non conosce la tua storia, appare come un insieme di immagini molto concettuali, ma immagino che per te ogni immagine sia una storia. Ce ne puoi raccontare qualcuna?
Hai assolutamente ragione: ogni foto racchiude una storia, anche se a prima vista sembra silenziosa o ‘noiosa’. Prendiamo, ad esempio, la foto dell’hot dog nell’auto d’epoca. Quella foto è stata scattata durante una visita sulla costa occidentale insieme a mio marito, in un piccolo museo nascosto della Route 66. Quando siamo entrati, una coppia ci ha accolto calorosamente. La moglie ci ha raccontato con orgoglio di come pianificasse tutti i loro viaggi on the road in raccoglitori: pagine e pagine di attenta organizzazione. C’era qualcosa di dolce e tenero nel modo in cui lo ha condiviso.
Ho aiutato mio marito a fotografare una vecchia pompa di benzina arrugginita, uno di quegli oggetti che sembrano contenere il tempo al loro interno. Inizialmente sono stata attratta dall’auto d’epoca, poi ho notato l’hot dog di plastica, che aveva per qualcosa di surreale. Non è stato facile scattare: ho dovuto sporgermi goffamente nell’auto, in uno spazio scarsamente illuminato, cercando di guardare attraverso il mirino e di tenere tutto fermo. È stato uno di quei piccoli momenti di silenzio che ti rimangono impressi. Quando ci siamo tornati, in occasione di un altro viaggio, abbiamo trovato il museo completamente chiuso. Quella foto ora è un piccolo ricordo di un luogo che non esiste più.
Pensi che possa servire educare alla comunicazione visiva chi soffre di depressione?
Certo, penso che la cosa più importante sia creare spazio affinché le persone possano parlare e condividere. Sono cresciuta con l’idea che certe conversazioni non dovessero avere luogo, che dovessero essere nascoste e che si dovesse semplicemente affrontarle in solitudine. Si vive la vita esteriormente, mentre interiormente tutto viene represso. Abbandonare questa mentalità è stato incredibilmente liberatorio per me e credo che possa essere utile anche agli altri. Per alcuni, questo tipo di espressione può avvenire attraverso la comunicazione visiva, come la fotografia o l’arte. Per altri, può manifestarsi in modi diversi. Ciò che conta è che le persone abbiano modo di aprirsi, senza paura di parlare di ciò che stanno attraversando. Si tratta di dare il permesso, sia a noi stessi che agli altri, di non tenere tutto chiuso dentro.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Dana Stirling sono disponibili sul sito della fotografa: www.danastirling.com.

Titolo Why Am I Sad
Fotografie di Dana Stirling
Formato 20x24cm
Pagine 112
Prezzo 44 euro
Lingua inglese
Editore Kehrer Verlag Heidelberg
Data pubblicazione11 settembre 2024
ISBN 978-3969001592
Sostieni il giornalismo specializzato di qualità! Se acquisti tramite il link in questo articolo, FOTO Cult, quale affiliato Amazon, potrebbe ricevere una piccola commissione che non influisce sul prezzo di vendita.
Una selezione di libri da non perdere secondo la redazione di fotocult.it
Kathy Shorr, la fotografa autista che trasformò una limousine nel più originale degli studi mobili
Il libro fotografico “Limousine” nasce dalla...
WildLOVE: gli animali così non li avete mai visti
Il nuovo libro fotografico di Pedro...
Cousins: capelli intrecciati e magnetici legami di sangue
La fotografa americana Kristen Joy Emack...
Fotografia Naturalistica. L’arte di ritrarre e raccontare la natura
Il libro che illuminerà la mente...
L’acqua che inghiotte la terra: le fotografie pre-apocalittiche di “SINK/RISE”
Il libro fotografico nato dal terzo...
The History War: il monumentale libro di Larry Towell sulla storia dell’Ucraina
"The History War" di Larry Towell...