Per Simone Sbaraglia la fotografia è uno strumento per avvicinarsi alla natura, quella delle zone più estreme del mondo, brulicanti di stupendi animali e di foreste rigogliose. La sua passione è diventata una professione e con il tempo, occupandosi di ambienti sensibili e delicati, il fotografo è riuscito a plasmare un suo metodo di approccio al contesto naturale e agli animali. Solo così riesce ad avvicinarsi ai suoi soggetti tanto da ottenere fotografie d’impatto, come ha fatto quando è riuscito a rendere quasi astratti i musi dei mandrilli, mettendone in mostra le sfumature, i giochi di colore, le pieghe. Ma prima dello scatto la preparazione è lunga e minuziosa. Ne abbiamo parlato direttamente con Simone.
Partiamo dalla sequenza di ritratti dedicati ai mandrilli. Ci racconti quell’esperienza?
Quello sui mandrilli è un lavoro del 2014. Cerco sempre di pianificare in modo molto preciso i miei reportage, ragionando in anticipo sul messaggio e sulla storia che voglio raccontare. In questo caso avevo in mente una sequenza di immagini molto astratte, in cui i soggetti apparissero come fotografati in studio e fossero completamente decontestualizzati. Desideravo porre l’accento sulle meravigliose linee e colori di questi animali e per farlo avevo bisogno di eliminare ogni altro elemento di disturbo.
Ho seguito un gruppo di mandrilli nel Parco Lekedi, in Gabon, per tre settimane, sempre accompagnato da un gruppo di ricercatori che studiavano questi animali. L’ambiente in Gabon è molto duro: ogni giorno dovevamo fare ore di trekking per trovare il gruppo di animali, spesso guadando torrenti e dovendo sopportare insetti e piogge torrenziali. È stata un’esperienza impegnativa ma meravigliosa, a stretto contatto con la natura incontaminata.
I ritratti sono molto ravvicinati. Che strumentazione hai usato?
All’epoca utilizzavo fotocamere reflex Nikon. Questi ritratti sono stati realizzati con una Nikon D800, una reflex full-frame. Nella giungla, dovendo seguire gli animali e non potendo cambiare spesso l’ottica, cerco di limitarmi all’utilizzo di due obiettivi. È generalmente più importante essere rapidi e in grado di posizionarsi velocemente piuttosto che avere l’ottica più performante.
Inoltre, nella fotografia di wildlife che pratico non è indispensabile ricorrere a obiettivi particolarmente luminosi, perché la ridotta distanza dal soggetto richiederebbe comunque un diaframma relativamente chiuso per aumentare la profondità di campo.
Questo mi consente di utilizzare ottiche un po’ meno luminose e quindi più leggere. La focale che utilizzo più spesso è uno zoom grandandangolare, con cui ho realizzato i ritratti ambientati per i quali sono più noto. Nel caso del reportage sui mandrilli ho utilizzato uno zoom 80-400mm per ridurre al minimo lo sfondo e astrarre il più possibile i ritratti. Ho poi usato uno zoom grandangolare 12-24mm per i ritratti ambientati. Non utilizzo il treppiedi nella giungla perché sarebbe troppo complicato da trasportare, inoltre è necessario essere molto veloci nei movimenti per trovare il giusto punto di ripresa.
In quei ritratti, soprattutto nei primissimi piani, il volto del mandrillo sembra uscire dall’ombra. Di che luce ti sei servito?
Quando fotografo la natura selvatica utilizzo quasi sempre il flash. Normalmente questo ha la funzione di un riempimento, per gestire il contrasto elevato e schiarire le ombre. In questo caso, tuttavia, ho deciso di impostare i ritratti come se fossero realizzati in uno studio fotografico, sottoesponendo decisamente lo sfondo per rendere il flash dominante rispetto alla luce ambiente, scurire lo sfondo e decontestualizzare i soggetti. Naturalmente una costante consultazione con i ricercatori che mi accompagnavano è stata fondamentale per garantire che il mio lavoro non fosse di disturbo per gli animali. Per ottenere ciò che avevo in mente era necessario essere molto vicino ai soggetti, perché il flash da slitta è efficace come luce principale a distanza ridotta.
I ritratti sono stati realizzati quasi tutti negli ultimi 4-5 giorni di lavoro: dopo due settimane di interazione con i mandrilli gli animali si abituano ed è possibile fotografare più da vicino. È anche importante passare le prime settimane a capire i movimenti e atteggiamenti degli animali per essere in grado di anticiparli quando verrà il momento giusto. Si può dire che durante le prime settimane le foto che faccio hanno la sola funzione di abituare gli animali e me stesso all’interazione. Non producono mai nulla di interessante in sé ma sono propedeutiche al lavoro finale.
In questi casi come ti relazioni con il tuo soggetto? Immagino non ci sia possibilità di direzionarlo nelle pose…
‘Se le tue foto non sono abbastanza buone non sei abbastanza vicino’ insegna Robert Capa. Lontananza dal soggetto, se non è una scelta studiata e consapevole, vuol dire timore, scarsa partecipazione, assenza. Se il fotografo non partecipa alla scena l’osservatore si sentirà distaccato dagli avvenimenti. È necessario dunque superare la paura, la ritrosia, il timore di essere invadenti e trovare un modo per entrare in contatto con i nostri soggetti, conquistandone la fiducia. A mio avviso è fondamentale in questo percorso che il fotografo non sia aggressivo, che rispetti il soggetto, che accetti che sia quest’ultimo a condurre il gioco, a decidere se e quando si realizzerà uno scatto.
È indispensabile che il fotografo rifiuti la logica degli scatti rubati a favore di una filosofia secondo la quale è il soggetto a concedere uno scatto. Si tratta di un lavoro lungo e senza garanzie di successo che ripaga però, quando funziona, con un rapporto con il soggetto autentico e intimo che si traduce in immagini profonde. Il mio metodo è molto semplice e consiste nel rimanere 3-4 settimane sempre con lo stesso gruppo di animali, seguendoli dall’alba al tramonto. Naturalmente mi faccio accompagnare da guide del parco, ranger o ricercatori che seguono gli animali per studiarli. Con il tempo, solitamente, gli animali si abituano e riesco a fotografarli molto da vicino senza disturbarli.
Facciamo un passo indietro. Come ti sei avvicinato alla fotografia naturalistica?
Nel 2001, completato un dottorato in matematica, mi sono trasferito a New York per lavorare in un centro di ricerca. Ho scoperto l’incredibile natura americana: parchi immensi e una grande varietà di ecosistemi. Dalle zone umide della Florida ai ghiacci dell’Alaska, passando per deserti, vallate, montagne. Ho deciso allora di prendere in mano la macchina fotografica e ho cominciato a viaggiare in lungo e in largo per documentare queste meraviglie.
Con il tempo ho scoperto che nella maggior parte dei casi si tratta di ecosistemi in crisi, che a causa di inquinamento, aumento di popolazione e competizione per le risorse energetiche potrebbero non sopravvivere, e che la fotografia può in qualche modo contribuire alla loro salvaguardia. Così, in breve tempo, la fotografia naturalistica è entrata prepotentemente nella mia vita e ho deciso di rientrare in Italia per potervi dedicare più tempo. Da allora affianco il mio lavoro di docente universitario a quello di fotografo e appena ne ho la possibilità viaggio fino ai confini della Terra per raccontarne l’incredibile armonia e fragilità.
Ti saranno capitate delle situazioni bizzarre. Ce ne racconti una?
Certamente, interagendo con gli animali selvatici capitano spesso situazioni strane o divertenti. Tra le esperienze di cui conservo un bellissimo ricordo c’è la frequentazione dei macachi neri del Sulawesi. Una scimmietta con una zampa atrofizzata per un laccio di un bracconiere era diventata mia amica e una volta mi saltò in braccio mentre fotografavo e mi mise una zampa intorno alla spalla come per abbracciarmi. Poi si mise a guardare dentro la macchina fotografica.
Oltre a questo aneddoto, un’infinità di contrattempi: ad esempio, il primo giorno di un viaggio in Giappone, per fotografare il rituale d’amore delle gru giapponesi, sono scivolato sul ghiaccio distruggendo parte dell’attrezzatura. Ho passato quindi due settimane a fotografare animali troppo vicini per l’unica focale che mi era rimasta.
Mi è capitato, poi, di finire impantanato in Zambia e dover attendere decine di ore prima di poter chiedere aiuto; di essere gettato in un canale da una folata di vento in Islanda, distruggendo l’attrezzatura e fratturandomi una caviglia; o di cadere e fratturarmi una costola in Madagascar, per poi finire il reportage grazie al lavoro incredibile della mia guida che ha trasportato tutta l’attrezzatura mettendomi in condizione di premere solamente il pulsante di scatto.
Hai mai avuto paura nello scattare una foto?
Molto raramente. Non si tratta di un lavoro pericoloso, anche se amo fotografare i miei soggetti molto da vicino e spesso questi possono anche essere pericolosi, come nel caso del drago di Komodo, degli alligatori o dei coccodrilli. I grandi felini, invece, vengono fotografati in condizioni di sicurezza, da una jeep o da un elefante.
Per altri animali l’avvicinamento è molto graduale, nel corso di giorni durante i quali si ha modo di imparare a capirne il movimento e l’atteggiamento. Lo studio preliminare, nella fase di preparazione del reportage, del comportamento degli animali è fondamentale. Naturalmente alcune situazioni di pericolo mi sono capitate, quasi sempre in conseguenza di miei comportamenti sbagliati, ma nella maggioranza dei casi mi sono sentito molto più in pericolo nelle città e nei trasferimenti in auto in zone di guerra o in cui è presente un’elevata criminalità che all’interno dei parchi a contatto con gli animali.

Bio e contatti
Simone Sbaraglia è un fotografo naturalista, Fujifilm Ambassador X-Photographer. Da oltre vent’anni gira il mondo per documentarne l’armonia, la bellezza e la fragilità e ha collaborato con le principali testate nazionali ed internazionali. Le sue immagini, pubblicate in tutto il mondo ed esposte in Italia, Europa, USA e Canada, hanno ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti nei concorsi internazionali, come il BBC Wildlife Photographer of the Year, il Nature’s Best Photography, il Glanzlichter e molti altri. Simone è autore di diciotto libri fotografici e quando non è in viaggio ai confini della terra insegna, realizza videocorsi e conduce workshops fotografici.
www.simonesbaraglia.com
Fotografare gli orsi selvatici nelle più suggestive foreste del mondo
Silvano Paiola racchiude più di dieci...
Racconti e fotografie di un brillante cacciatore di orchidee selvatiche
Luigi Torino esplora i territori della...
Fotografa il “re dei tuffi” in volo attraverso una cascata e vince il GDT Nature Photographer of the Year 2025
Konrad Wothe è il vincitore assoluto...
“Mini Michael” tra bisonti, aquile e lupi nella foresta vergine della Polonia
Il giovane Michael Lovera racconta il...
Un 100-400mm e gli alberi “magici” del Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise
Con focali lunghe e tecniche creative,...
A tavola con l’orso: Pål Hermansen vince il Glanzlichter 2025
Sangue e neve sul podio della...