Simona Pampallona alterna spesso il suo lavoro di fotografa nel cinema con i suoi progetti autoriali. Cosa congiunge tutte le sue attività fotografiche? Qual è quello stile che rende riconoscibile la sua firma creativa? Come il suo pensiero artistico si manifesta anche sui set cinematografici? Abbiamo intervistato Simona, provando a dare risposta a queste domande, e anche ad altre…
Lavori spesso come fotografa per il cinema, sei stata la fotografa di tutti i film di Alice Rohrwacher ad esempio. Come il tuo linguaggio autoriale è entrato in dialogo con il linguaggio cinematografico?
Prima di cominciare un nuovo film cerco di vedere i il più possibile le opere del regista con cui lavorerò. Non sempre è stato possibile perché ho avuto la fortuna di lavorare a molte opere prime. “Fortuna” perché in un’opera prima c’è una grande ricerca a tutto tondo, a partire dalle immagini, ma non solo. C’è il rapporto con gli attori, lo studio degli ambienti, il lavoro sulla sceneggiatura. In un’opera prima c’è la necessità di affidarsi alle grandi “maestranze” come fotografia, scenografia, costumi, mentre al tempo stesso c’è bisogno di far emergere la propria visione in maniera originale.
Quando vedo un film, in sala, mi lascio trasportare. Non mi piace guardare la tecnica, voglio solo immergermi. È lo stesso per le fotografie: scattare viene d’istinto, dall’esercizio degli occhi che diventano il mirino della macchina fotografica.
Come è iniziato il tuo sodalizio con Alice Rohrwacher? E il tuo lavoro nel cinema?
Per caso. Alice chiamò, per avere dei nominativi, un’amica calabrese (il film, Corpo Celeste, infatti, si girava a Reggio Calabria) e lei fece il mio nome, forse intuendo che si sarebbe potuto instaurare un rapporto di amicizia.
Ci siamo incontrate a pranzo, insieme allo scenografo, Luca Servino. Pensai che mi piaceva molto, ma ero troppo emozionata per farle domande per capire in cosa effettivamente consistesse il lavoro. Quando arrivai sul set, in una città che non conoscevo, la prima sensazione che provai fu il freddo intenso che si prova a lavorare dieci ore continuate all’esterno, compreso spesso il momento del pranzo, il famoso cestino. In più, avendo ognuno un proprio compito molto preciso, venivo spesso scacciata via dal set perché intralciavo il lavoro degli altri. Corpo Celeste fu anche il primo film di Tempesta, la casa di produzione con cui collaboro, e per questo conobbi anche Carlo Cresto-Dina, il produttore. Con il tempo cercai di inserirmi meglio nella squadra, e rubare i momenti.
In una delle foto più famose di Corpo Celeste, la protagonista Yle Vianello indossa un maglione di “servizio”, ovvero un capo in dotazione dal reparto costumi per non prendere freddo tra uno stop e l’altro, anziché la maglietta che indossa nel film. Con Loredana Buscemi, la costumista, a distanza di anni ci ridiamo ancora.
Chi sono i tuoi modelli, fotograficamente parlando?
Questa è una domanda difficile. In verità non riesco a pensare a un solo modello, ma un insieme di discipline diverse: scrittura, cinema, fotografia e teatro. È un gran guazzabuglio. Inoltre, come stimoli per il mio lavoro, mi piace pensare alle mie amicizie, al mio quartiere, ai bambini. Alle scritte per strada, ai caffè presi nei bar sconosciuti, ai gratta e vinci buttati per terra, all’ortica che cresce ovunque. I miei pensieri sono più legati all’osservazione di ciò che mi sta intorno che ai modelli fotografici. I modelli non ci sono, ci sono stati d’animo, emozioni legati a fotografie, progetti bellissimi che raccontano storie vicine e lontane. Ma sono i particolari, i dettagli che sfuggono, il motore che fa muovere gli ingranaggi.
Sia tramite i tuoi progetti personali che tramite il tuo lavoro di fotografa di cinema lo scopo primario del tuo lavoro è quello di raccontare delle storie. Riesci comunque a scorgere delle differenze tra le due narrazioni?
Nel cinema tutto è finzione. Nella fotografia tutto è verità. Oppure è il contrario. Non so, mi piace l’idea di mischiare i due linguaggi, perché chi è al di fuori di un set si chiede sempre “ma come hanno fatto a fare quella scena? Come sono gli attori veramente?”, chi è dentro al set invece oramai vive tutto come una routine. La sfida vera è riuscire a non smascherare gli artefatti e al tempo stesso raccontare cosa succede dentro e fuori dal film.
Hai progetti nel cassetto a cui stai lavorando?
Sì. Mi sto dedicando, quando posso, a un progetto nel quartiere dove abito, Tor Marancia. Mi sono divertita a trasformarlo in stile western. Era una cosa che volevo fare da molto, ma poi mi dicevo sempre di non avere abbastanza tempo. Eppure ci pensavo come alla cosa più facile, visto che non dovevo fare nessun viaggio. Alla fine sono riuscita a cominciarlo, ma ovviamente non lo voglio finire, perché le fotografie mi fanno molta compagnia, specialmente quelle in cui coinvolgo le persone e i luoghi a cui tengo.