Il giapponese Shigeru Onishi è un autore misconosciuto che ebbe una carriera fulminea e una produzione alquanto limitata. Oggi le sue opere vanno riportate alla luce per scoprire un esempio di quella fotografia che più che mostrare qualcosa all’osservatore tende a fare emergere i frutti dell’immaginazione del fotografo.
Il gesto artistico applicato alla fotografia, l’intervento dell’autore sui supporti prima e dopo l’impressione delle immagini, la manipolazione fisica delle stampe, il guizzo performativo là dove ci si aspetterebbe pura registrazione di luoghi e situazioni, la concezione che una disciplina non deve per forza essere confinata entro i limiti degli strumenti tecnici con cui essa viene praticata. Tutto ciò si riconosce (talvolta appena, talaltre chiaramente), nelle opere di svariati fotografi, come per esempio Joel-Peter Witkin, Jan Saudek, William Klein, Peter Beard, Gilbert and George, John Stezaker, Man Ray o Paolo Ventura. Sono autori che, in modo sporadico o nell’intera carriera, si sono mossi con disinvoltura lungo il confine che separa la fotografia dall’arte moderna e contemporanea, con incursioni nei territori della pittura, della scultura e del teatro che possono risultare poco comprensibili per coloro che cercano l’ortodossia dell’obiettivo.
Direzione ibrida
Chiari esempi di quanto l’intervento dell’autore possa essere invasivo sono le immagini del giapponese Shigeru Onishi, nato nel 1928 e scomparso nel 1994. Nella sua brevissima carriera, concentrata negli anni Cinquanta, ha prodotto una serie di lavori che si erano persi nel tempo finché non sono stati riscoperti con una piccola mostra al Paris Photo del 2017.
Molto prima che comparissero sulle scene i programmi di fotoritocco, Shigeru Onishi creava e manipolava le proprie fotografie utilizzando liberamente le procedure e gli strumenti della camera oscura. Nello specifico, la sua ricerca consisteva soprattutto in esperimenti con le superfici fotosensibili e con gli acidi di stampa. Applicava di persona con un pennello le emulsioni sulla carta fotografica, creando così irregolarità tali da dare l’impressione che le immagini fossero state dipinte anziché trasposte da un negativo. Inoltre giocava con la temperatura dei bagni chimici per intervenire sui tempi di stampa e con le esposizioni multiple per dare alle proprie opere un effetto disorientante, come se in esse coesistessero più piani temporali tra le cui pieghe le figure umane diventavano irriconoscibili o si sdoppiavano con il risultato, sia nell’uno sia nell’altro caso, di essere inafferrabili da parte dello sguardo dell’osservatore.
Piani linguistici
Chiari esempi di quanto l’intervento dell’autore possa essere invasivo sono le immagini del giapponese Shigeru Onishi, nato nel 1928 e scomparso nel 1994. Nella sua brevissima carriera, concentrata negli anni Cinquanta, ha prodotto una serie di lavori che si erano persi nel tempo finché non sono stati riscoperti con una piccola mostra al Paris Photo del 2017.
Molto prima che comparissero sulle scene i programmi di fotoritocco, Shigeru Onishi creava e manipolava le proprie fotografie utilizzando liberamente le procedure e gli strumenti della camera oscura. Nello specifico, la sua ricerca consisteva soprattutto in esperimenti con le superfici fotosensibili e con gli acidi di stampa. Applicava di persona con un pennello le emulsioni sulla carta fotografica, creando così irregolarità tali da dare l’impressione che le immagini fossero state dipinte anziché trasposte da un negativo. Inoltre giocava con la temperatura dei bagni chimici per intervenire sui tempi di stampa e con le esposizioni multiple per dare alle proprie opere un effetto disorientante, come se in esse coesistessero più piani temporali tra le cui pieghe le figure umane diventavano irriconoscibili o si sdoppiavano con il risultato, sia nell’uno sia nell’altro caso, di essere inafferrabili da parte dello sguardo dell’osservatore.
Opere uniche
Le immagini di Onishi, in effetti, quando non erano propriamente astratte, sembravano comunque essere più il frutto di un’indagine psicanalitica che di una ricerca fotografica. I volti e i corpi dei suoi soggetti, spesso ridotti a meri fantasmi colti nell’atto di scomparire, si manifestavano all’interno dell’inquadratura come se fossero stati catturati in un mondo irraggiungibile dalla fotografia; un mondo in cui l’identità degli esseri umani era scissa, molteplice, mutevole, impossibile da registrare e decifrare. Per questo, quando ci si trova davanti a un’immagine di Shigeru Onishi si ha l’impressione di doverla vivere più che leggere, cioè di doverla assorbire in modo quasi sinestetico, come si farebbe con un dipinto di Mark Rothko o, per restare nell’ambito della fotografia, con alcune opere di Hiroshi Sugimoto o Thomas Ruff. Quindi forse non sorprende scoprire che l’autore giapponese, nella seconda metà degli anni Cinquanta, cambiò strada e continuò la sua carriera con la pittura astratta a base di inchiostro. D’altra parte anche le sue stampe, dato il procedimento con cui le creava, mettevano in discussione il concetto fondamentale della riproducibilità in serie delle immagini fotografiche. Dunque diventavano opere uniche, proprio come i dipinti, e ognuna di esse evocava una scena irripetibile.
Mezzi di creazione
Ed è certamente il termine “evocazione” uno dei più adatti a descrivere la produzione di Shigeru Onishi, perché quest’ultimo anziché catturare situazioni che si presentavano davanti ai suoi occhi sembrava piuttosto farle uscire dalla propria immaginazione. Le estraeva dalla propria mente e le offriva all’osservatore come frammenti di un pensiero impossibile da esprimere nel linguaggio lineare delle parole e quindi anche intraducibile in quello della fotografia oggettiva. Ne conseguiva che l’unica maniera per affidarsi alla pellicola e alla camera oscura era di impiegarle non come strumenti di documentazione ma come mezzi atti alla creazione artistica, in cui ciò che contava non era la descrizione realistica di un soggetto ma la presentazione di come esso veniva elaborato dalla mente dell’autore.
Le fotografie contenute in questo articolo fanno parte della mostra Shigeru Onishi – The Possibility of Existence