Parigi
Dal 25 febbraio al 29 aprile 2023
Se diciamo Urbex, chi vi viene in mente?
Quando si studia un particolare fenomeno artistico o culturale può rivelarsi più difficile del previsto stabilire con certezza chi o cosa vi abbia dato inizio. In alcuni casi non ha neppure senso, se non per soddisfare una propria ossessione filologica. Perché risalire all’intuizione che ha dato l’abbrivio a un nuovo modo di osservare il mondo non significa necessariamente avvicinarsi alle sue manifestazioni più alte. Spesso è più utile concentrarsi direttamente sulle opere che rappresentano al meglio uno specifico movimento o filone di pensiero.
La fotografia non fa eccezione e a dimostrarlo è il caso di Robert Polidori. Forse non è stato lui il primo a dedicarsi ai luoghi abbandonati o segnati dal deperimento, ma sicuramente sono sue le immagini che per prime vengono in mente quando si pensa a interni di edifici in disuso o a scorci urbani di quartieri in decadenza. Certamente si può rilevare che già nell’Ottocento i fotografi viaggiatori producevano vedute delle rovine della Grecia classica o delle piramidi d’Egitto. Ma è subito chiara la differenza tra quelli e Polidori: il canadese trapiantato negli USA, anch’egli assiduo viaggiatore, non documenta il passato remoto attraverso ciò che resta di civiltà scomparse.
Passato, ma non troppo
Quello che sfila davanti all’obiettivo di Polidori è il passato recente, una serie di storie che possono essere considerate concluse ma che sono vive nella memoria di coloro che sono ancora in vita. I suoi racconti sono rivolti a uomini e donne che vivono ora e li riguardano da vicino in quanto parlano del loro tempo e si svolgono in luoghi che a volte fanno parte del paesaggio in cui si muovono quotidianamente. È il caso, per esempio, delle case e delle strade di New Orleans travolte dall’uragano Katrina nel 2005. Alcune sono tuttora disabitate, tuttavia si trovano in zone della città percorribili e quindi con la loro presenza non consentono a chi passa da quelle parti di seppellire la memoria di quel disastro naturale. Altro discorso sono le immagini della città ucraina di Pripyat, abbandonata nel 1986 all’indomani dell’incidente nell’impianto nucleare di Chernobyl. Indubbiamente sono poche le persone che hanno il coraggio di avventurarsi fino a lì e che ne osservano le rovine di frequente.
Ma, a parte questo fattore, non si può non notare che nonostante le condizioni di abbandono e la desolazione che non lascia scampo si tratta comunque di una pagina di storia ancora viva nelle menti di chiunque, sia di chi allora lesse la notizia dell’incidente sui quotidiani, sia di chi oggi è consapevole dei rischi ambientali connessi alla produzione di energia nucleare. Così il libro che raccoglie le immagini di quel progetto, oggi purtroppo fuori catalogo ma reperibile nel mercato dell’usato e del collezionismo, rimanda a un fatto compiuto eppure adagiato sullo strato più superficiale della memoria collettiva, quello che può essere osservato senza bisogno di studi archeologici.
Quindi Polidori lavora sul tempo e sui luoghi che ne conservano le tracce. Per l’esattezza lavora su due distinte percezioni del tempo. Da un lato quello passato, cioè quello in cui le scenografie dentro cui egli si muove sono state costruite; dall’altro quello che ha agito quasi fosse esso stesso un essere vivente, un animale selvatico che si è appropriato dei posti abbandonati dall’uomo e li ha deteriorati lentamente graffiandoli con le unghie. Probabilmente è dovuto all’utilizzo della fotografia a colori, ma la sensazione che si prova guardando le opere di Polidori è che il processo di decadimento non sia mai completo e che le superfici e i materiali non siano ancora stati svuotati totalmente del ricordo della loro funzionalità. Per rendere l’idea in altri termini, è come se l’autore entrasse in una stanza dopo che è stato emesso un suono e ciò nonostante fosse in grado di registarne il riverbero che rimbalza tra le pareti.
Robert Polidori: capostipite di un genere tra la fotografia d’interni e il reportage urbano
Sicuramente non tutta la sua produzione ruota attorno a questa ricerca (si veda per esempio il suo progetto Opus Operantis, sugli affreschi di Fra’ Angelico conservati nel Museo di San Marco a Firenze), tuttavia una buona porzione di essa la riguarda e ha ispirato molti a dedicarsi alla documentazione di luoghi abbandonati. Infatti oggi sono innumerevoli gli account Instagram degli emuli di Polidori e lui può essere considerato a buona ragione il capostipite di un genere che si trova all’incrocio tra la fotografia d’interni e il reportage urbano. Un filone che esplora la memoria collettiva; quella che non esiste solo nelle menti delle persone ma che ha una consistenza solida fatta di mattoni, mobili, strati di vernice e spazi in cui ci si può ancora muovere.
Ed è esattamente un momento di passaggio che viene catturato dall’autore: la fase durante la quale i luoghi lasciati vacanti da chi li popolava passano gradualmente da una condizione di integrità a una di irrecuperabile decadenza cui non può seguire nulla se non la demolizione o un lento processo di inglobamento da parte della vegetazione selvaggia. Così in un’epoca come questa, in cui il futuro è incerto e tutto rischia di diventare rapidamente obsoleto, l’opera di Polidori è estremamente attuale e ricca di letture. Se ne sono accorti i vari musei pubblici di tutto il mondo che ne hanno acquisito le foto, così come le piccole gallerie che la espongono senza sosta.
Robert Polidori. Photographs
- Galerie Karsten Greve, 5 Rue Debelleyme – Parigi
- dal 25 febbraio al 29 aprile 2023
- martedì-sabato, 10-19
- ingresso gratuito
- galerie-karsten-greve.com