Roma
Dal 17 novembre 2023 al 15 gennaio 2024
Dal 17 novembre le pareti della Galleria 28 Piazza di Pietra di Roma accoglieranno cinquanta stampe delle bizzarre specie viventi inventate dalla mente eclettica di Olmo Amato per il progetto intitolato Deep Blue. Neurobiologo, fotografo e filmmaker, Amato ha prodotto un erbario immaginario d’autore, catalogando più di duecento esemplari, generati e analizzati con tutti i crismi dell’approccio scientifico. Le specie ideali di Deep Blue sono forme di vita simbiotiche, i cui elementi biologici e tecnologici convivono in funzione di un’interazione ideale tra macchine e natura. Il processo creativo parte dall’intelligenza artificiale, passa per il fotomontaggio delle immagini digitali e approda alla matericità attraverso l’antico processo di stampa della cianotipia.
Di seguito la nostra intervista con Olmo Amato, la cui versione integrale, completa di immagini di backstage dall’ideazione alla stampa, è disponibile nel video in apertura di questo articolo. La mostra sarà inaugurata il 16 novembre e aperta al pubblico a partire dal 17.
Come ti presenteresti brevemente raccontando la tua professione, i tuoi interessi e il tuo legame con la fotografia?
Mi piace dire che mi occupo di immagini. Immagini statiche, immagini in movimento, immagini digitali e analogiche. Sono arrivato alla fotografia passando per un percorso di studio molto diverso: mi sono laureato in biotecnologia per poi specializzarmi in neurobiologia. La passione per la fotografia mi è stata trasmessa da mio padre, fotografo. Ad oggi lavoro in campo fotografico nell’ambito della postproduzione e della ripresa e mi occupo di tutto ciò che riguarda le immagini, il video e la cinematografia.
La mostra si intitola Deep Blue. Perché?
Deep Blue è innanzi tutto un blu molto profondo. Il titolo, però, si ispira anche al nome del primo calcolatore della IBM che nel 1997 sconfisse, in una storica partita a scacchi, l’allora campione mondiale Gary Kasparov. Deep Blue è pure una ricerca dedicata a tutto ciò che è legato all’intelligenza artificiale, che si basa sul deep learning, cioè su meccanismi di apprendimento automatico che hanno portato allo sviluppo delle forme generative di cui si legge molto oggigiorno anche a proposito della creazione di immagini, che io definisco ‘immagini sintetiche’ o ‘sintografie’.
Al di là del dibattito su forme di arte generativa, come dicevo, il Deep Blue è un colore che ha radici storiche ben lontane. In fotografia il blu di Prussia è un pigmento che si otteneva attraverso la cianotipia, un antico processo di stampa fotografica analogica ai sali di ferro il cui risultato è caratterizzato proprio dal colore blu.
Quali sono le fasi realizzative delle tue opere?
Le opere in mostra sono create a partire da immagini generate dall’intelligenza artificiale attraverso gli ormai noti software di Tex to Image. Questo significa che ho dato delle istruzioni testuali alle macchine, i cui risultati sono stati da me raccolti e rielaborati. Da molti anni, infatti, ricorro alla tecnica del fotomontaggio, quindi per alcune di queste immagini la complessità consisteva proprio nel ricombinare insieme gli elementi prodotti dalle macchine per creare delle nuove forme.
A questa fase ha fatto seguito un processo di stampa fotografica antica per creare immagini sintetiche analogiche. Il progetto racconta un mondo, rappresenta un erbario, un’invenzione che mette insieme tecnologia e natura in una sorta di simbiosi tra mondo tecnologico artificiale e mondo organico. Deep Blue parla di collaborazione tra specie diverse per la sopravvivenza.
È puramente ideale o esiste già qualcosa del genere in quest’epoca in cui la tecnologia pervade qualsiasi ambito?
Le immagini di Deep Blue sono puramente di fantasia. Nella realtà ci sono degli studi scientifici per cercare il modo di utilizzare i funghi per trasmettere informazioni elettriche all’interno di un circuito, o altri lavori pioneristici che usano combinazioni tra organico e inorganico. L’intelligenza artificiale è usata in campo biologico per numerosissimi studi e ricerche, dunque ci sono rimandi a ricerche realmente esistenti, anche se le mie immagini sono completamente inventate.
La domanda chiave del progetto è ‘cosa potrebbe succedere, in termini positivi, se le forme di intelligenza evoluta apprendessero dalla natura, imparando a collaborare con le forme di vita che popolano il Pianeta?’.
Dato il procedimento basato sull’intelligenza artificiale che hai descritto, potresti ricreare una delle immagini da te prodotte generandone una copia esatta?
In teoria sì, in alcune condizioni, ma di fatto questo non avviene mai. Come nella biologia, alla base dell’evoluzione c’è il caso. Tutte le immagini generate artificialmente hanno origine dal rumore digitale, una grana senza struttura né forma, da cui poi emergono delle immagini. Il mio progetto consiste in 256 specie differenti, in mostra ce ne sono una cinquantina. Per generare queste immagini ho chiesto all’intelligenza artificiale di generare più di 10.000 immagini diverse. C’è molto lavoro di selezione, un artista non si limita ad appoggiarsi alla macchina, ma seleziona cercando una struttura e un senso legato allo strumento che usa, che è molto potente ma necessita di una guida. Finché restano digitali le immagini per me non hanno valore, ho bisogno di trasformarle in qualcosa di fisico, in vere fotografie fatte di materia, cellulosa, carta.
Una volta generata l’immagine digitale come hai fatto a mettere in atto il processo di stampa della cianotipia?
La cianotipia è una tecnica piuttosto semplice, divertente e non tossica. Si prende un pezzo di carta e lo si prepara stendendovi sopra una soluzione fotosensibile utilizzando due sali di ferro. Una volta asciutta la carta può essere esposta alla luce del sole, o a una luce ultravioletta controllata. La trasformazione passa attraverso un negativo, quindi mi è stato necessario stampare le immagini digitali su un supporto trasparente, invertendole. Si procede adagiando il negativo sulla carta, a contatto diretto, per poi esporre all’azione della luce. Seguono dei bagni di sviluppo e lavaggio per far sì che la reazione chimica trasformi il sale di ferro nel blu di Prussia. La tecnica è semplice, ma dato che a me le cose semplici non piacciono ho incentrato il mio lavoro sulla ricerca di un blu molto profondo. Volevo raggiungere un’intensità che non si raggiunge di solito con la versione ‘casereccia’ della cianotipia.
E come hai fatto? Come si riesce a modificare l’intensità del blu?
La mostra racconta anche questo tramite un’installazione in galleria, in cui ho voluto mostrare la complessità di questo tipo di ricerca. Grazie al mio percorso formativo ho competenze scientifiche e il mio studio ospita un piccolo laboratorio di chimica. Ho studiato molto, basandomi sulla vasta letteratura che parla di questa tecnica e ho fatto tante prove che hanno prodotto soddisfazioni e allo stesso tempo frustrazioni. Presto ci si rende conto che le variabili da controllare sono tantissime, dalla concentrazione della soluzione iniziale, che non è sempre identica tra una stampa e l’altra, alla quantità di soluzione da stendere sulla carta, all’umidità della carta nel momento in cui si applica la soluzione, al tempo di lavaggio, fino alla temperatura di sviluppo e lavaggio. Per fare questa mostra ho buttato una notevole quantità di carta.
Più ci si avvicina al blu profondo che quasi diventa nero, più emergono aspetti interessanti legati alla perdita di controllo. Se la soluzione è troppo concentrata si formano dei cristalli di sale che macchiano la carta o creano artefatti, in alcuni casi bellissimi, ma difficilmente collocabili nei punti desiderati. Le stampe realizzate in estate, con un’umidità maggiore, danno risultati migliori rispetto a quelle confezionate in inverno con un clima più secco. È la mostra di una ricerca tecnica e artistica, ma soprattutto una ricerca del nostro posto su questo pianeta.
Quindi la cianotipia non ti permette di creare un’immagine uguale all’altra e questo aggiunge valore al tuo lavoro.
Assolutamente sì. Ogni stampa è unica, ogni esemplare vivente è unico e a volte le variabili sono così tante che sono difficili da controllare. Nonostante lo sforzo l’imprevisto è dietro l’angolo, l’errore diventa caratteristica, aggiunge valore e crea unicità.
Tutte le stampe sono state realizzate sulla stessa carta?
Sì, una volta scelta la carta più adatta in base alla sua struttura e capacità di assorbire e trattenere il colore, la texture e il colore, quella carta resta una costante.
Che carta hai utilizzato?
È una carta francese per tecniche antiche, Bergger, 100% cotone grammatura 320 g/m. Ha un’ottima resa, restituisce una bellissima incisione e un piacevole contrasto ed è una carta con una texture minima e un tono non caldo. Il progetto aveva bisogno di una certa pulizia e di una carta non eccessivamente calda per ricreare l’elemento asettico del laboratorio.
Molte immagini di Deep Blue sono racchiuse in una forma circolare. C’è un motivo?
Volevo rifarmi alle cellule, all’elemento base degli esseri viventi e all’oculare del microscopio. Anche le piastre di Petri, i supporti di vetro dove si fanno crescere colture cellulari in laboratorio, hanno una forma circolare. L’elemento del cerchio aiuta a far sì che il progetto abbia ha un sapore scientifico, consentendomi di mettere insieme le mie due anime, dello scienziato e del fotografo.
Ti servi spesso del fotomontaggio per unire immagini del passato e del presente, lo hai fatto anche nei tuoi lavori precedenti.
Il fotomontaggio è stato lo strumento con cui ho iniziato a giocare seriamente con la fotografia. Con questo strumento posso connettere elementi molto distanti nel tempo e nello spazio, come fotografie scattate da me in digitale nel presente e materiale d’archivio di più di cento anni fa. Mi piace l’idea di ricorrere al fotomontaggio per creare nuove narrazioni, partendo sempre da materiale fotografico.
Deep Blue fa inevitabilmente pensare al lavoro di Anna Atkins: sicuramente vi accomuna la tecnica di stampa e in parte anche il soggetto. C’è qualcosa che ti differenzia in modo netto dal suo lavoro?
Da quel lavoro sono passati un po’ di anni, ma credo che lo spirito di osservazione scientifico sia lo stesso. Quando Anna ha iniziato a posizionare le piante a contatto sulla carta ha messo in atto un lavoro metodico e di osservazione. Anche nel mio lavoro tutti gli esemplari fanno parte di una tassonomia, hanno un nome e delle possibili funzioni ipotizzate partendo da un’osservazione della loro morfologia. Il mio interesse, però, va oltra la catalogazione dell’esemplare, è una ricerca artistica su come applicare una tecnica dell’Ottocento a immagini sintetiche, e anche una ricerca legata alla natura stessa dell’intelligenza artificiale e all’utilizzo che ne facciamo.
Hai considerato la possibilità di vendere queste immagini come NFT?
Rispetto agli NFT ho sempre preso le distanze. Credo nella fisicità delle opere d’arte, a mio avviso un’opera non è finita finché non è su supporto cartaceo, finché non è fatta di materia. Mi interessa trovare una connessione col mondo fisico, perché anche ciò che è digitale, sintetico o artificiale è estremamente connesso al mondo fisico. La quantità di energia necessaria ai calcolatori è enorme, i minerali con cui sono fatti i server e i microchip sono materia che viene dalla terra e non mi piace l’idea di rifugiarmi nell’astrazione digitale. Viviamo nell’era del digitale ma siamo fatti di molecole, di carbonio e quello che produciamo, almeno nel mio campo, è degno di esistere se diventa qualcosa di fisico.
Olmo Amato. Deep Blue
- A cura di Olmo Amato e Francesca Anfosso
- Galleria 28 Piazza di Pietra, piazza di Pietra, 28 – Roma
- dal 17 novembre 2023 al 15 gennaio 2024
- lunedì-venerdì 15-20, o su appuntamento
- ingresso gratuito
- 28piazzadipietra.com/it/