“Penso a quello che i giapponesi hanno realizzato per secoli, riducendo al minimo gli elementi, scartando tutto il superficiale: in qualche modo è ciò che cerco nelle mie fotografie”: è così che il fotografo peruviano Juan Borja spiega il suo fare creativo.
Sintesi, lirismo e approccio multiculturale: sono questi gli elementi che caratterizzano la forte personalità che il fotografo e biologo sudamericano Juan Borja cerca di affinare costantemente, alla ricerca di nuove idee, contaminazioni e nuovi soggetti da fotografare. “Non dimenticare che mia nonna materna era giapponese”, specifica l’autore durante la nostra intervista. E non a caso: in qualche modo, infatti, quelle origini multietniche hanno influenzato il suo lavoro, perché Borja non guarda mai nella stessa direzione e, se punta la fotocamera su un soggetto, lo fa solo dopo averlo osservato da molte angolazioni e sperimentato le tecniche più varie (di scatto e di stampa) per trovare quella giusta. Inevitabile, guardando le sue immagini, il paragone con un grande della storia della fotografia, Edward Weston, al quale sicuramente Juan si è ispirato.
Abbiamo raggiunto telematicamente l’autore per ascoltare, dalla sua voce, il racconto della relazione che intreccia quotidianamente con il mondo dell’immagine fine art in bianconero.
Sei un biologo specializzato in ecologia. Come si incontrano scienza e fotografia nelle tue immagini?
Sono sempre stato affascinato dall’anatomia del mondo vegetale e da quella di altri esseri come gli invertebrati marini e gli insetti. Il mio interesse per la fotografia botanica è in gran parte influenzato dalle illustrazioni e dalle incisioni, come quelle realizzate da artisti giapponesi o dagli antichi naturalisti durante i loro viaggi. Una delle cose che mi piace fare di più è visitare vecchie librerie. Trascorro molto tempo a sfogliare pile di libri, soprattutto quelli con illustrazioni. Credo che la fotografia sia scienza e arte, e che una buona foto contenga entrambe le discipline.
Come hai incominciato?
Mio padre aveva un’attività di compravendita di fotocamere usate, quindi in parte la mia passione arriva da lì. Poi mi sono sempre piaciuti la natura, la storia della mia città di origine, Lima, i fumetti classici, le vecchie trasmissioni radiofoniche che narravano storie horror, e pure il cinema messicano, italiano e giapponese. Tutto questo ha plasmato la mia passione per l’arte della fotografia.
Digitale o analogico?
Anche se ho cominciato a scattare all’inizio dell’era digitale, ho imparato a usare entrambe le tecnologie, quindi lavoro sia in pellicola, sia in digitale. Per le fotografie di botanica utilizzo solo il digitale perché mi permette di scattare molte più immagini per sperimentare i risultati estetici alle diverse profondità di campo: se lo facessi con la pellicola mi costerebbe moltissimo. Per il resto del mio lavoro, quello in analogico, uso la fotocamera Konica Koni Omega e le pellicole in bianconero Ilford Fomapan e Neopan; quest’ultima è la mia preferita.
Quali sono gli altri tuoi strumenti?
Scatto in luce naturale: per illuminare il set mi servo di una finestra dalla quale i raggi di sole arrivano piuttosto diffusi. A volte adopero anche un piccolo specchio contrapposto alla fonte di luce, cosicché questa sia riflessa verso le zone più buie dell’inquadratura. Come sfondo ho un cartone, di solito nero, o dei tessuti. Però, quando ti avvicini troppo, a volte vedi la trama di alcuni materiali e questo complica le cose. Quindi provo sempre nuove soluzioni e tonalità per lo sfondo. Per fissare le parti della pianta utilizzo ganci molto sottili che nella scena non si vedranno. Mi piace fare foto botaniche come se ogni foglia o fiore fosse una donna, così cerco la posa e la luce ideali, a volte con dolcezza, altre con erotismo.
In che modo componi le tue immagini?
Anzitutto raccolgo foglie, steli e fiori – nel mio zaino ho sempre con me la fotocamera e una scatola – e porto tutto a casa dove fotografo, sempre che non sia necessario aspettare che il materiale raccolto si secchi. A volte mi interessa riprendere il processo durante il quale i fiori e le foglie appassiscono, si attorcigliano, si contorcono: questa è la magia! Per scattare uso il vecchio e molto economico obiettivo Nikkor del mio ingranditore 35mm, che attacco a un tubo di cartone molto resistente; in base alle dimensioni dell’oggetto uso tubi diversi, a volte li incollo per ottenere un ingrandimento maggiore. Infilo l’obiettivo nel tubo e lo spingo o lo tiro per mettere a fuoco. Attacco il tubo con l’obiettivo alla mia fotocamera Sony Alfa 6000, usando del nastro isolante nero, e metto tutto sul treppiedi. Con questo marchingegno, la fotocamera non riconosce l’obiettivo, né il diaframma impostato. Quindi regolo quest’ultimo su un valore abbastanza chiuso da restituirmi una buona profondità di campo, ma senza rischiare la diffrazione. A quel punto mi limito a impostare il tempo di posa adatto ed effettuo diversi scatti muovendo avanti e indietro l’obiettivo nel tubo, cosicché ogni foto presenti un piano di fuoco diverso. Infine, in camera chiara, con Photoshop, ottengo lo scatto finale selezionando e incollando varie porzioni delle immagini scattate.
La stampa è una fase fondamentale del tuo processo creativo. Quali supporti adoperi?
Per la stampa preferisco usare fogli di acetato che faccio stampare in laboratorio con una Epson P9900. Preferisco l’acetato perché dona una luminosità, una forza e una eleganza che non riesco a trovare nella carta, anche se a volte stampo pure su questo supporto. Poi ritocco a mano la foto usando l’inchiostro o del carboncino e per finire dispongo l’acetato stampato su una carta bianca o un altro materiale come ad esempio la foglia d’oro. Uso anche carta da disegno o per acquarello con molta texture, mi piace molto la Hahnemühle William Turner.Dopo aver sperimentato senza esserne soddisfatto, la tecnica della stenotipia che mi permette di ottenere foto simili alla stampa al carbone, ma senza la controindicazione dell’utilizzo di sostanze pericolose, come avveniva un tempo, ora sto provando a fare uno stampo in alluminio da usare come matrice, servendomi di un piccolo router a controllo numerico computerizzato, che è sostanzialmente una macchina per incisione meccanica.
Cosa vuol dire per te fare fotografia fine art?
Questa è una domanda un po’ complicata… L’unica cosa che penso essenziale, oltre alla tecnica, è che si percepisca la presenza dell’autore nella fotografia. L’arte, qualunque essa sia, deve essere autentica e personale.
Come è considerata la cultura fotografica in Perù?
Abbiamo avuto un’ampia varietà di fotografi sin dagli inizi della fotografia. Nel mio Paese vedo molta arte concettuale. Una cosa che mi colpisce è l’eccessiva dimensione delle stampe, penso di essere uno dei pochi a stampare in piccolo formato: di solito mi fermo al 12x16cm, al limite vado poco oltre, ma raramente produco in grande formato. Tornando all’approccio alla fotografia in Perù, come in tutto il mondo c’è la voglia di diventare star di Instagram, ottenere consensi con i like ed essere un influencer. Penso che tutto ciò sia una perdita di tempo: per essere un vero autore devi lavorare molto seriamente, anche se scatti le foto con un cellulare.
Riesci a vivere grazie alla tua fotografia?
Vorrei che fosse così, ma non lo è, anche se vendo spesso le mie immagini ad amici, collezionisti americani e giapponesi. Poi, se producessi solo per vendere l’opera, impazzirei di ansia e questo mi porterebbe a creare cose che non mi interessano davvero. Per ora mi basta fare foto di cui sono soddisfatto. Per vivere, lavoro come biologo con specializzazione in ecologia e svolgo progetti legati alla mia professione.
Come gestisci gli elementi propri del mercato dell’arte come tiratura, costi, certificazioni…
Non mi piace l’idea di una tiratura limitata perché non credo che questo dia più o meno valore alla foto. Per assegnare un valore economico al mio lavoro ho sempre due cose in mente. La prima riguarda il tipo di progetto realizzato; la seconda a chi sto vendendo: non posso applicare lo stesso prezzo a un amico che mi ha supportato sin dall’inizio e a un collezionista d’arte! In ogni caso, tutte le mie opere sono accompagnate da una garanzia autografata.
Quali scatti ci sono nel tuo domani?
Sto lavorando a una nuova serie chiamata Metamorfosi, nella quale lascio appassire i fiori e scatto diverse foto osservando il processo di cambiamento. Sto anche lavorando su una serie di templi antichi e architettura contemporanea poco nota. Ora che posso iniziare a viaggiare, ho in programma di andare in Amazzonia per eseguire ritratti alla gente del posto. In generale, il mio lavoro diventa ogni giorno più gotico e bizzarro, cosa che mi piace, non voglio restare nella bellezza in quanto tale, ma cerco la rarità.
Bio
Juan Borja (Lima, Perù, 1977). Studia Scienze con specializzazione in Biologia ed Ecologia. Comincia a interessarsi alla fotografia da bambino grazie al lavoro del padre e al fatto che viveva vicino al centro storico di Lima. Questo gli ha permesso di curiosare nell’Archivio Courret, il più importante studio fotografico di Lima nel XIX secolo. Attualmente lavora allo studio delle forme della natura, dell’architettura antica e del ritratto. La sua ispirazione deriva da fotografi come i fratelli Vargas e Martin Chambi che hanno operato nel Sud andino, i messicani Graciela Iturbide, Juan Rulfo e Gabriel Figueroa, il brasiliano Sebastião Salgado e il tedesco Karl Blossfeldt. Si interessa molto all’arte incisoria e alla fotografia giapponese, ma anche agli anime e ai manga giapponesi, al cinema degli anni ‘60 e ‘70 e alla pittura dei peruviani Tilsa Tsuchiya, Venancio Shinki e Gerardo Chávez e dei pittori messicani Remedios Varo e Leonora Carrington. Ha esposto negli Stati Uniti, Canada, Italia, Perù e Cuba. juanborjaphotography.com; @juanborjaphotographer