Milano
Dall’11 al 14 aprile 2024
Dina Goldstein usa la fotografia, e nello specifico la staged photography, come strumento critico per scardinare, con ironia e intelligenza, gli stereotipi sotto cui il mondo si sommerge costantemente. Le tematiche sono sociali e raccontano, a tutti gli effetti, il nostro quotidiano: la religione, gli abusi di potere, la questione di genere, il concetto di bellezza, il mondo femminile. Tutti argomenti di particolare interesse universale, accomunati dal fatto di essere raccontati al mondo secondo una retorica a compartimenti stagni.
Goldstein si oppone, con la sua arte, a tale narrazione convenzionale, alle donne dipinte come guardiane del focolare o come principesse da salvare, ai rapporti stereotipati tra i sessi, ai dogmi religiosi. Al MIA Photo Fair di Milano, presso lo stand di Tallulah Studio Art, il lavoro dell’autrice farà parte della mostra collettiva Because you are a woman, insieme a quelli di Maurizio Forcella, Keila Guilarte e Donatella Izzo. Abbiamo parlato con Dina Goldstein del suo processo creativo e del suo pensiero critico.
L’universo femminile è spesso raccontato secondo stereotipi, che tu, con il tuo lavoro, cerchi di disinnescare con parodie e visioni parossistiche. Dove nasce questa tua modalità di narrazione?
Penso al potenziale di tutte le donne, in tutto il mondo, e a come siamo state, e siamo tutt’ora, oppresse da una narrazione maschile e maschilista. Mi rattrista il fatto che molte donne oggi siano ancora trattenute dal perseguire i loro obiettivi e le loro aspirazioni. Il tema principale del mio lavoro è la disillusione, causata dalle storie che ci vengono raccontate e da quelle che raccontiamo a noi stesse. Mi occupo, però, anche di temi sociali, politici e questioni della condizione umana. Sono affascinata dal concetto di “immaginario comune”, dagli archetipi, dalle icone e dal simbolismo che l’umanità condivide.
Come costruisci le tue immagini?
Costruisco dei personaggi che siano archetipicamente riconoscibili, collocati all’interno di un ambiente molto reale e altrettanto riconoscibile. La narrazione si svolge in un’unica fotografia e si espande in tutta la serie nel suo insieme. Per quanto riguarda i contenuti mi focalizzo, per lo più, su concetti intuitivi e su un processo piuttosto tecnico di staged photography. La mia metodologia segue un programma di pre e post produzione. Comincio con una grande quantità di ricerche, prima di imbarcarmi in un progetto, che spesso richiede fino a due anni per essere completato. Lavoro con una troupe ridotta all’osso, un gruppo di massimo dieci persone che fanno vari lavori sul set come scenografia, costumi, capelli o trucco. Mi concentro sull’illuminazione e lavoro a stretto contatto con gli attori. I dettagli dei set sono pensati con molta attenzione e cura. Infine, dopo aver scattato, metto insieme la narrazione in post-produzione.
Nei tuoi progetti giochi molto con l’ambiguità tra la finzione e il reale…
Il mio lavoro esamina gli effetti della cultura di massa sulla società occidentale. In effetti, questo focus si estende, ora come ora, alla maggior parte del mondo, non solo all’Occidente, influenzato dalle stesse tematiche come il denaro, il potere, la fama e soprattutto i social media e la tecnologia. Mi interrogo spesso sull’atto di “fingere” e sul perché sia una pratica così diffusa nella società moderna. Questa mia indagine personale mi ha portata a riflettere sugli stereotipi narrativi e sugli archetipi, costruendo le mie immagini proprio sul dialogo tra fiction e realtà. Nei miei progetti la finzione prende in prestito dalla realtà e la realtà prende in prestito dalla finzione.
Le due cose sono intrecciate perché l’esistenza umana stessa è soggetta ad un processo narrativo ambiguo, seguendo tematiche come la religione, il sistema giudiziario e anche la convinzione che le donne siano inferiori o fatte per l’addomesticamento. I miei tableaux vivants vogliono incoraggiare il pensiero critico, includendo un personaggio di fantasia al fine di mettere in discussione il processo narrativo convenzionale a cui siamo, solitamente, sottoposti quotidianamente.
Sei sempre stata interessata alla staged photography?
Da bambina amavo il National Geographic e Life, che mi facevano conoscere luoghi e culture del mondo. Volevo avventurarmi, scoprire, sperimentare. Tuttavia, la vita da fotoreporter non faceva per me e l’ho scoperto andando a fotografare i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Dopo essere tornata ho iniziato a sperimentare con immagini tematiche, concentrandomi sulla serie David, con cui ho invertito il tipico rapporto artista-modella-musa. Il risultato è una serie di ritratti grezzi che ritraggono una modella attraverso il tempo. Mi ci sono voluti alcuni anni per trovare la mia voce, e per far sì che quella voce si traducesse in un lavoro serio. La staged photography è stato un passaggio naturale per me, anche in virtù della mia passione smodata per il teatro durante i miei anni da liceale. Così, questa metodologia di produzione è diventata la mia firma, la costante della mia pratica artistica.
Che rilevanza hanno avuto su di te le favole dell’infanzia?
Crescendo in Israele ascoltavo fantastiche storie bibliche che contenevano sempre un importante messaggio sociale. Erano racconti divertenti, educativi, una forma di conservazione culturale e un modo per instillare valori morali. Sicuramente hanno lasciato una traccia nel mio lavoro.
Because you are a woman
- Fotografie di Dina Goldstein, Maurizio Forcella, Keila Guilarte e Donatella Izzo
- TALLULAH STUDIO, Mia Photo Fair 2024, Allianz Mico Milano Congressi
- dall’11 al 14 aprile 2024
- www.miafair.it