Al fianco dei due grandi maestri del fotogiornalismo Paolo Pellegrin e Alex Majoli, Diana Bagnoli racconta il cammino dei pellegrini e le sfaccettature del processo di fede che anima sia piazza San Pietro, sia le realtà religiose periferiche e meno “istituzionali”.
Nel più complesso progetto Città Aperta 2025, in mostra a Roma presso VIVE – Vittoriano e Palazzo Venezia fino al 28 settembre, che ha visto i tre fotografi raccontare Roma nell’anno del Giubileo, Diana ha adottato un approccio diverso rispetto a Majoli e Pellegrin. La fotografa ha rinunciato a ogni concettualismo preferendo un’indagine del sentimento di fede caratterizzata da uno stile asciutto e partecipato.
In alcuni casi Diana ha partecipato al percorso dei pellegrini verso Roma, o di ritorno a casa; in altri la fotografa si è concentrata sui racconti collettivi dei fedeli, sulla loro pratica nella grandiosa piazza San Pietro, ma anche nelle chiese sparse per la capitale, punti di ritrovo per intere comunità.
Abbiamo intervistato Diana Bagnoli sul suo progetto.
Come è nato il progetto espositivo Città Aperta 2025. Roma nell’anno del Giubileo e come, secondo te, le tue immagini dialogano con quelle di Paolo Pellegrin e Alex Majoli? Per continuità o contrasti?
Ero in vacanza nel periodo natalizio e mi è arrivata la mail di Roberto Koch, presidente dell’Agenzia Contrasto. È stato il miglior regalo inaspettato che potessi ricevere. Bisognava partire subito, da quella notte ho cominciato a ragionare sulla storia da raccontare e su come farlo, sulla logistica, sulla produzione, sulla lista delle persone da contattare e su quanto investire. Ho una bambina piccola, me la sarei portata dietro.
La compagnia era delle migliori ma anche la più sfidante che potessi immaginare, è stato un onore e un forte stimolo dover produrre un corpo di lavoro affiancata a due titani della fotografia. Tutto sommato è stata una bella sfida.
Abbiamo dialogato e ci siamo incontrati più volte, davanti al Gemelli con Paolo e con Alex in Piazza San Pietro in diversi punti strategici durante la Pasqua e il funerale di Papa Francesco. Tuttavia, le nostre foto sono molto diverse, anche quelle scattate negli stessi luoghi e nello stesso momento.
Da cosa trae spunto il titolo del progetto, Il senso del viaggio?
Premesso che non l’ho scelto io, di sicuro è un titolo che vuole sottolineare il fatto che, a differenza di quelle degli altri due fotografi, le mie fotografie sono state scattate in più luoghi, non solo a Roma, ma anche lungo la via Francigena nel Nord Italia.
Il mio progetto sul Giubileo si concentra specificamente sui pellegrini, detti anche ‘romei’, termine storico che indicava i pellegrini cristiani che si recavano a Roma per venerare i luoghi santi.
Per me era importante cogliere, in queste persone che venivano da molto lontano o da molto vicino, il loro viaggio spirituale. Volevo catturare nei loro occhi il mistero della fede.
Loro sono i ‘Pellegrini della Speranza’, che è proprio il termine utilizzato per questo Giubileo 2025, per sottolineare l’importanza del viaggio, in senso lato, verso una maggiore consapevolezza della presenza di Dio. Ho cercato di trasmettere nelle mie foto la loro esperienza, non solo di viaggio ma soprattutto di fede. Ciò che li accomuna tutti è un senso di misticismo e di ricerca che li spinge e che rende sacro il loro cammino.
Volevi cogliere il simbolico di cui il viaggio del pellegrino si impregna o realizzare un racconto più tradizionalmente reportagistico?
Oltre al ritratto più ‘evocativo’ della fede dei pellegrini, c’era il contesto storico e i fatti che ci hanno colto di sorpresa. La malattia di Papa Francesco, la sua inaspettata apparizione a Pasqua e la sua altrettanto inaspettata morte che ha stravolto i programmi di tutti, soprattutto quelli dei pellegrini. Per cui ho prolungato la mia permanenza a Roma e ho potuto mitigare la serie di ritratti con delle foto di reportage con una valenza documentaristica.
Come la morte di Papa Francesco e la successiva nomina di Papa Leone XIV si sono inseriti nel vostro racconto?
È stata una fortuna aver scelto di lavorare ad aprile, un mese ricco di situazioni emozionanti per i fedeli giunti a Roma nell’anno giubilare. Per questo motivo sono rimasta fino al funerale di Papa Francesco, che ha arricchito di emozioni il racconto fotografico. È stata un’occasione per fotografare i numerosi giovani pellegrini che erano giunti a Roma per la canonizzazione di Carlo Acutis e invece si sono ritrovati a partecipare al funerale più seguito degli ultimi tempi. Ho chiuso così il mio lavoro, salutando Papa Francesco.
Qual è stato il tuo viaggio per produrre questo lavoro?
Un po’ spinta dalla curiosità, ma anche dal contesto che rendeva complicato muovermi liberamente e lavorare in Vaticano, che è un luogo molto contingentato, turistico, pieno di vincoli e controlli, ho rivolto il mio sguardo alle chiese più ‘periferiche’ di Roma, alle comunità cattoliche di stranieri della capitale, dove la fede è ancora molto sentita e le chiese sono un punto di riferimento importante, luoghi di aggregazione, sostegno reciproco e assistenza sociale. Lì ho potuto documentare i fedeli stranieri residenti a Roma che si preparavano – con minuzia, digiuni e ritiri religiosi – al loro passaggio attraverso la Porta Santa di una delle quattro Basiliche Papali. Così ho trovato il modo di ottenere l’intimità che cercavo, senza coinvolgere i luoghi più turistici.
Nello specifico ho fotografato presso la Basilica minore di Sant’Anastasia al Palatino, da poco adibita al culto della comunità di rito siro-malabarese, che a Roma conta circa settemila fedeli del Kerala e dello Sri Lanka e che ogni domenica riempie le chiese romane con circa tremila praticanti. Sono entrata nelle loro case a recitare il rosario per terra e poi prendere parte all’immancabile cena condivisa tipica della veglia pasquale con un pane strano e una bevanda di latte di cocco molto dolce. Poi ho raggiunto la Basilica di Santa Pudenziana, sede della comunità filippina, che ho fotografato anche a Milano; la Chiesa di Sant’Ambrogio della Massima, rappresentante la comunità nigeriana; e ancora la Chiesa del Santissimo Redentore, dove ho incontrato la comunità di latino americani guidati da Padre Gerardo.
Inoltre, sempre a Roma, dopo varie porte sbattute in faccia dalle suore che non mi facevano entrare nei loro conventi adibiti a ostello, ho finalmente incontrato la confraternita di Santiago di Compostela. In questo locus amoenus i volontari non solo ospitavano gratuitamente i viandanti, ma li accoglievano con il miglior spirito cristiano, come Gesù ha accolto i suoi discepoli, cioè lavandogli e baciandogli i piedi in una piccola cerimonia che si tiene ogni sera, per dirgli: ‘Sei arrivato a casa, il tuo cammino è finito’. Questo rito rappresenta la vera accoglienza pellegrina. Non pensavo che esistesse un luogo simile.
Fuori Roma, invece, sono stata a Torino nella chiesa giubilare dell’Immacolata Concezione e in città ho potuto incontrare anche le praying mothers, in procinto di partire per il Giubileo delle famiglie. Le ho fotografate pregando. Inoltre, sono arrivata sulla via Francigena, in Val di Susa, e anche a Milano, rintracciando coloro che stavano per mettersi in cammino o che erano appena tornati.
Il tuo progetto è anche un excursus sulla rappresentazione della fede e dei luoghi a essa adibiti. Il concetto di viaggio che volevi cogliere riguarda anche le differenze estetiche e di “messa in scena” tra la piazza di San Pietro e i luoghi di culto più periferici e meno simbolici?
In un certo senso sì, mi hanno colpito le differenze tra piazza san Pietro e i contesti più popolari. Sicuramente il contesto vaticano mi ha mostrato il lato più scenografico, ricco, maschile, lontano. Magnifico da una parte, sembra di stare dentro un film, ma per me, abituata ad avvicinarmi e a condividere, è stato anche molto difficile da cogliere.
Mi sono addirittura fatta prestare, dall’assistenza Nikon Italia, un telezoom 180-600mm per rubare delle immagini che potessero essere significative. Di solito non ‘rubo’, anzi sono visibilmente presente, sono consapevolmente partecipe. Per questo motivo, poi, mi sono mossa verso scenografie più semplici, per trovare l’intimità che cercavo e l’essenza della fede pellegrina. Il dialogo tra questi due mondi mi ha appassionato molto.
Quanto l’approccio partecipativo conta per il tuo lavoro?
Per me la condivisione del vissuto è fondamentale per fare delle belle foto. Cerco di immedesimarmi con i miei soggetti, trascorrere del tempo con loro per arrivare a una sorta di processo empatico che mi permetta di essere in comunione con quello che stanno vivendo. L’approccio partecipativo è il mio modo di rappresentare la realtà. Devo essere parte dei miei soggetti, sentire come loro. È un processo totalizzante, che non sempre mi è possibile, ma è sempre lì che cerco di arrivare.
Tra i tre autori sei l’unica che ha usato il colore. È stata una scelta progettuale per equilibrare l’intero lavoro o pensi che il colore sia un elemento che connoti il tuo specifico pensiero fotografico?
Tutte e due le cose. Credo avesse senso differenziarsi da loro e poi io amo il colore, pur nella sua criticità. Si aggiunge un elemento narrativo da gestire, che può essere un’arma a doppio taglio. Il colore rischia di essere più didascalico e meno evocativo del bianco e nero, che per forza di cose offre una lettura più poetica e più lontana della realtà. Il colore però può regalare sfumature diverse, accostamenti sorprendenti. Credo che a me arrivi di più il colore.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Diana Bagnoli sono disponibili sul sito della fotografa: dianabagnoli.com.
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