All’inizio del 2025 Piero Corvo ha avuto accesso al campo rom di Giugliano (NA) e ha iniziato a frequentarlo per entrare in contatto con le persone che lo abitano e che avrebbe successivamente fotografato. Ne è nato ROMA, un lavoro di denuncia che, per prima cosa, vuole sottolineare l’inumanità di vita a cui è costretta la popolazione rom che lì ha casa.
I corpi e i volti dei bambini sono le dimostrazioni visive di questo scempio, estremamente vitali ed espansivi, ma costantemente segnati dalle difficoltà igieniche e da una vita di stenti. L’obiettivo di Piero indugia su di loro in maniera emotiva e profondamente umana, ricordando la tradizione reportagistica della seconda metà del ’900 e portando alla mente, anche nella composizione estetica, alcuni grandi maestri.
Abbiamo intervistato Piero per farci raccontare il suo progetto e la sua esperienza sul campo.
Come nasce il progetto ROMA?
L’idea di questo lavoro nasce nel dicembre del 2024 a Belgrado. Dopo un po’ di tempo in città sono venuto a sapere della presenza del campo rom più grande d’Europa. Conoscevo approssimativamente la cultura rom e ho pensato che potesse essere l’occasione per approfondire la tematica. Ho cercato qualcuno che mi potesse accompagnare, ma non ho trovato nessuno, così ci sono entrato da solo, ma ho capito fin dall’inizio che era un’idea abbastanza azzardata. Non conoscevo la lingua e non potevo farmi capire. Non mi sono sentito totalmente sicuro e così ho preferito non proseguire. Però, tornato in Italia, facendo ricerca, sono venuto a conoscenza del campo rom di Giugliano, in Campania, a venti minuti da Aversa, dove abito.
Mi sono messo in contatto con l’Associazione 21 luglio, che si occupa specificamente del superamento del concetto di campo rom, fornendo assistenzialismo di base riguardo a sanità, cibo e alloggi. A Giugliano, ho scoperto, la situazione è una delle più complesse in Italia. Il campo è nato negli anni ’90, quando alcune famiglie provenienti dalla Bosnia arrivarono dopo la guerra e ora accoglie circa ottanta famiglie per un totale di cinquecento o seicento persone. Nel tempo nulla è cambiato, le condizioni di vita sono insostenibili e il campo è lasciato a sé stesso.
Per la realizzazione del progetto come ti sei organizzato?
La prima volta sono entrato con il presidente dell’Associazione 21 luglio, senza macchina fotografica. Ci sono andato senza aspettarmi nulla, per quanto riguarda la progettualità del lavoro, la mia intenzione era puramente conoscitiva. Solo in seguito ho capito che c’erano i margini per pensare a un progetto che raccontasse la situazione. Dalla seconda volta, per farmi conoscere, sono andato da solo almeno una volta a settimana, solitamente di domenica pomeriggio, fino al tramonto. La mia moneta di scambio per farmi accettare erano proprio le mie fotografie. Ritraevo le persone e poi regalavo loro quelle immagini, accolte con grande entusiasmo specialmente dai bambini.
Per quanto tempo hai fotografato?
Da gennaio 2025 fino a tre settimane fa, quando ho concluso la prima fase del progetto.
Il corpus di immagini del tuo lavoro si focalizza soprattutto sugli esterni del campo…
Sono entrato anche in qualche alloggio, però volutamente mi sono concentrato specificamente sulle condizioni esterne della vita del campo.
Quindi la decisione di non fotografare gli interni non è stata influenzata da impedimenti fisici, ma solo dalla tua idea progettuale?
Sì. Per l’esattezza ho scattato diverse immagini di interni che ho scelto di non includere in questo primo capitolo perché l’intenzione del progetto, e dell’Associazione 21 luglio, era quella di denunciare le condizioni generali del campo. Tuttavia, il lavoro è ancora aperto e non è escluso che possa in futuro approfondire gli spazi interni.
Ti sei focalizzato soprattutto sui bambini. Non ci sono uomini e le donne compaiono esclusivamente come madri, accompagnate dai loro figli. Perché?
Gli adulti erano abbastanza restii a farsi fotografare. Ho avuto qualche problema nel rapportarmi soprattutto con gli uomini, mentre le donne se si trattava di farsi fotografare, come dicevi tu, in compagnia dei loro figli erano più tranquille. Ovviamente quando ritraevo i bambini i genitori erano presenti, ma quasi sempre rifuggivano il mio obiettivo.
Quindi ritrarre i bambini è stata una scelta di necessità…
In qualche modo sì.
Come ti approcciavi a loro?
Spesso erano loro stessi a chiedermi di fargli una fotografia. Erano molto contenti di farsi ritrarre, la mia attenzione li faceva sentire “visti”, cosa che solitamente non succede. Come ti dicevo prima, regalare le fotografie mi ha aiutato ad entrare in connessione con chi abitava il campo rom di Giugliano, con i bambini specialmente.
Il titolo, ROMA, può essere fraintendibile se non si conosce il progetto…
Roma, nella lingua romaní, è la forma plurale del singolare maschile rom, l’etnonimo utilizzato dai rom stessi per definire il loro popolo, specialmente in ambito istituzionale. In italiano siamo soliti utilizzare il termine rom anche con accezione plurale, dunque roma ci risulta poco familiare.
Pensi di proseguire questo lavoro indagando altri campi?
Mi piacerebbe approfondire il tema sia raccontando altri campi rom in Italia, sia all’estero. Però per questo capitolo specifico avevo la necessità di portare a galla la realtà contingente del campo di Giugliano e di chi lo abita. Non escludo che con le evoluzioni legali a cui il campo sarà soggetto in futuro (è previsto uno sgombero a fine maggio ad esempio), il racconto possa continuare spostandosi dove si sposteranno i rom del campo di Giuliano.
Sono molti i fotografi che, in passato, hanno raccontato i campi rom. Da Koudelka a Gianni Berengo Gardin, solo per fare due nomi. Avevi qualche riferimento fotografico quando hai iniziato il progetto?
In realtà no. Sono un attento conoscitore e fruitore della cultura fotografica e dei grandi maestri, però quando scatto mi sento di essere molto istintivo, senza avere in testa nessun riferimento specifico. Magari a posteriori colgo la connessione con altri autori, ma non lo faccio intenzionalmente prima di scattare. Vorrei far emergere la mia visione, indipendentemente dalle analogie e dai contesti.
In una foto un bambino alza le braccia come a voler mostrare i muscoli. Un’immagine simile è stata prodotta anche da Koudelka che aveva colto tre ragazzini nella stessa posa. Il meccanismo che ti ha fatto produrre quella fotografia è stato inconsapevole quindi?
Sì, non l’ho fatto consapevolmente. Conosco quel lavoro di Koudelka e penso sia incredibile. Anche l’immagine del funerale nella stanza è un’immagine molto toccante e che mi ha sempre colpito molto. Ma, come dicevo, quando scatto lo faccio esclusivamente pensando alla mia narrazione.
Davanti al dolore degli altri come ti sei posto?
Solitamente non ho mai nessuna intenzione di spettacolarizzare il dolore altrui. In questo caso la rappresentazione del dolore e delle condizioni di povertà mi è servita per denunciare lo stato delle cose, per far aprire gli occhi alle persone. Alcune foto sono estremamente forti proprio per questo motivo, per far arrivare questo tema più incisivamente alle coscienze di chi le osserva.
A che immagini specifiche ti stai riferendo?
A quella dei bambini sul cumulo di spazzatura, ad esempio. Quando sono andato la prima volta, la montagna di rifiuti era tre volte più grande di come appare nell’immagine. Ogni quattro o cinque mesi la spazzatura viene portata via, ma poi, essendoci seicento persone nel campo, il cumulo si ricrea molto velocemente. I bambini solitamente vanno lì a giocare, arrampicandosi, cercando cose che potrebbero essere utili alla famiglia, ma anche semplicemente al loro gioco. È un’immagine che esemplifica perfettamente la decadenza e la trascuratezza in cui viene lasciato il campo e chi ci abita.
Lo stesso vale per la fotografia del neonato. Non è prevista assistenza sanitaria, non c’è alcun supporto. La madre del bambino, che aveva dieci giorni quando l’ho fotografato, non poteva allattare e chiese a me di procurale del latte, cosa che ovviamente feci. Il rapporto con i miei soggetti è sempre andato oltre la semplice operazione di fotografarli.
ROMA si compone, nella maggior parte dei casi, di immagini in bianco e nero, ma compare anche qualche fotografia a colori. Perché questa alternanza?
Sono partito con l’idea che il lavoro dovesse essere in bianco e nero e ho scelto il colore solo in alcuni casi, per il colpo d’occhio di insieme, per stimolare un dialogo cromatico particolare. Poi in post produzione ho lavorato molto anche per rendere più marcati i contrasti tra le luci e le ombre, sia con le immagini a colori, sia con quelle in bianco e nero. Però, a dire la verità, con la mia pratica fotografica sono sempre molto istintivo, sia dal punto di vista narrativo che estetico. Non voglio aggiungere troppi tecnicismi, vado un po’ a sentimento.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Piero Corvo sono disponibili sul sito del fotografo www.pierocorvo.com.
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