La Pan-American Highway è una rete di strade che si estende attraverso le Americhe, misurando circa 30.000 chilometri di lunghezza totale. Questa intricata maglia autostradale collega la maggior parte dei Paesi costieri del Pacifico del Nord America e del Sud America. Secondo i Guinness World Records, l’autostrada Panamericana è la “strada percorribile” più lunga del mondo.
In Autopsia Autopista il fotografo nord americano Aidan Klimenko la percorre in tutta la sua lunghezza per raccontare bellezze e diversità dell’America Latina. Abbiamo fatto una chiacchierata con il fotografo a proposito della nascita e dell’evoluzione del progetto.
Nel 1998, quando avevi nove anni, ti sei trasferito con la tua famiglia in Ecuador, dove hai vissuto per un anno circa. Quell’esperienza ti ha aperto la mente per una riflessione sui concetti di “estraneità” ma anche di “americanità”, che racconti in Autopsia Autopista. Come quell’esperienza si riscontra nel tuo lavoro?
Penso che spesso quando gli stranieri visitano l’America Latina con una macchina fotografica in mano, è l’‘esotismo’ del panorama culturale a farsi fulcro delle immagini. Queste ultime tendono a fondersi insieme, creando una camera di risonanza ridondante che può apparire bella, ma a mio avviso rimane in superficie e non ritrae accuratamente il luogo. Anche se per l’America Latina rimarrò eternamente uno straniero a prescindere da quante volte ci tornerò, ho scoperto di essere in grado di lavorare in modo più fluido relativamente al suo immaginario, occupandomi di temi che vanno oltre la superficie. Inoltre, penso che sia molto difficile farsi una vera idea di un posto dopo averlo visitato una sola volta. Così, dopo venticinque anni, tornare nei Paesi sudamericani lungo la Panamericana è per me un investimento, una ricerca su ciò che voglio dire dell’America e sul modo in cui voglio farlo.
Cosa ti ha spinto a prendere in mano la macchina fotografica la prima volta?
Ho studiato regia cinematografica al college. Ero innamorato del potere narrativo del film e della sua capacità di trasmettere un messaggio, o un sentimento. Ero convinto di voler diventare un direttore della fotografia, ma prima di iniziare il mio percorso di studi, mi sono preso un anno per viaggiare. In quell’occasione sono stato per la prima volta in Ecuador da solo, senza la mia famiglia. Ho trascorso otto mesi in giro, con lo zaino in spalla, attraverso Ecuador, Colombia, Perù e Brasile.
Volevo in qualche modo interagire con questi luoghi attraverso una telecamera, ma non volevo che il viaggio ruotasse attorno al tentativo di girare un film, quindi ho pensato che una fotocamera, attraverso immagini fisse, sarebbe stata un modo interessante di attuare la mia idea. Così mi sono innamorato della fotografia, oltre che della regia cinematografica, e l’ho aggiunta come obiettivo della mia formazione universitaria. Dopo la laurea ho gradualmente abbandonato la regia cinematografica in favore della fotografia. Chissà, forse un giorno tornerò alle immagini in movimento.
Perché hai scelto l’autostrada Panamericana come bussola del tuo viaggio?
Onestamente, volevo una scusa per viaggiare per tutta la lunghezza delle Americhe. Ma comunque, indipendentemente da questo, sono sempre stato interessato alla Pan-American Highway, perché è un esempio perfetto di collegamento fallito e sfruttamento economico, temi che trovo parte integrante della storia delle Americhe. L’idea della Pan-American è nata negli Stati Uniti a metà del 1800 come una ferrovia che avrebbe garantito agli Stati Uniti le numerose risorse sudamericane (argento, oro, spezie, zucchero e, più tardi, petrolio) che i portoghesi, gli spagnoli e gli inglesi stavano prendendo e trasportando attraverso l’Atlantico. L’idea della ferrovia non si è mai realizzata del tutto e si è estinta solo per essere ripresa nei primi anni del 1900, pensata come un’autostrada durante l’avvento dell’industria automobilistica.
La “Pan-American Highway Commission” è stata fondata nel 1923 ed è stata venduta ai Paesi occidentali del Sud America come un’opportunità per costruire relazioni commerciali con il Nord America. Ogni Paese era responsabile della costruzione della porzione di autostrada che attraversava il proprio territorio. L’autostrada è stata costruita nella sua interezza, ad eccezione della sezione di ottanta chilometri tra Panama e Colombia, che collega il Nord America e il Sud America. A causa di una combinazione di terreno impervio, differenze di vedute politiche e opposizioni ambientaliste, non è mai stata ultimata. Nella mia narrazione mi interessa anche questa relazione tra connessione e separazione.
Perché usi il termine “autopsia” nel titolo?
La radice greca di “autopsia” è “autos” che significa “sé”, e “optos” significa “visto” o “osservazione”, quindi ho pensato che poiché questo progetto riguarda tanto il mio rapporto con questi luoghi quanto i luoghi stessi, il titolo “Autopsia Autopista”, o “strada dell’auto-osservazione”, suonasse bene.
Nei tuoi lavori ti concentri spesso sulla rappresentazione e documentazione dell’America Latina. Nel tuo modo di rappresentarla fai confluire anche un pensiero critico e sociale al riguardo?
Assolutamente sì. Non credo che sarebbe responsabile, in quanto nordamericano, fotografare storie in America Latina senza riconoscere l’orribile storia dello sfruttamento, passato e attuale. Il mio progetto Autopista Autopsia non è ancora completo, ma questo senso critico e sociale di cui parli tu compare chiaramente nelle mie immagini, anche se non credo che il lavoro sia ancora riuscito a trasmetterlo pienamente come vorrei. Ci sto lavorando.
Si notano le influenze di molti fotografi documentaristi americani come Alec Soth, per esempio, o anche Stephen Shore. Chi sono i tuoi riferimenti fotografici?
Soth e Shore, insieme a Joel Sternfeld e William Eggleston, sono stati sicuramente fonte di ispirazione per quanto riguarda le scelte estetiche (grande formato, pellicola a colori), ma ho anche guardato molto al lavoro di Baldwin Lee e Dawoud Bey per trovare ispirazione quando si trattava di fotografare culture emarginate. Per iniziare questo lavoro ho, inoltre, letto The Open Veins of Latin America di Eduardo Galeano. Poi, come non citare il lavoro di An-My Lê, che sembra collocarsi da qualche parte tra arte e giornalismo.
In un certo modo, sembra che l’eterogeneità territoriale e culturale del tuo viaggio tu l’abbia trasposta con una certa eterogeneità narrativa, alternando fotografie di paesaggio, ritratti, dettagli, reportage sociale. È così?
Sì, ma non sono sicuro che sia efficace. Forse distrae. Come ho detto, il progetto è ancora in fase di lavorazione e questa è una cosa a cui sto pensando molto. La Pan-American Highway è molto lunga e copre un sacco di paesaggi diversi, sia fisici che culturali. Come si cattura al meglio l’essenza di quella diversità, se possibile, mentre si racconta una storia concisa? Questa è una domanda che mi pongo sempre e per la quale non ho ancora una risposta. La mia ultima idea è di suddividerla in più storie diverse, piccole, che lavorano insieme per dipingere un quadro più ampio. Un po’ come A Shimmer of Possibility di Paul Graham. Forse Autopista Autopsia è solo uno dei tanti capitoli che devono ancora essere esplorati.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Aidan Klimenko sono disponibili sul sito www.aidanklimenko.com.
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