Napoli
Dal 21 ottobre 2023 al 31 gennaio 2024
Riprese ravvicinate, bianchi e neri contrastati, grana, composizioni estrose: le fotografie in mostra alla Spot home gallery di Napoli ostentano l’inconfondibile firma di Anders Petersen, uno dei padri fondatori della fotografia soggettiva. Invitato dalla galleria stessa a vivere la città partenopea per fotografarne i luoghi e le persone, il celebre autore svedese ha prodotto una serie di immagini che si innestano alla perfezione nella sua produzione dal carattere diretto, istintivo e personale.
Come sempre dai tempi delle nottate trascorse a ritrarre i clienti bislacchi del Café Lehmitz – nel quartiere più malfamato di Amburgo – Petersen si è lasciato coinvolgere dall’energia vorticosa della città e dei suoi protagonisti. È diventato parte del flusso cittadino, ha setacciato la zona urbana addentrandosi nelle sue arterie e, armato di una compatta punta e scatta, ha tradotto in immagini la percezione che ne ha avuto. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua esperienza.
Alla Spot home gallery di Napoli è in corso la tua mostra Napoli/Anders Petersen. Sono esposte circa sessanta fotografie che hai scattato esclusivamente nella città di Napoli.
Sì, esatto, esclusivamente per la Spot home gallery, che mi ha offerto una residenza di artista nel 2022 invitandomi a esplorare la città scattando delle fotografie. Ho prodotto un portfolio di circa centoquaranta immagini in due periodi differenti, trascorrendo lì più o meno due settimane nel mese di maggio e tornando per un secondo soggiorno tra ottobre e novembre.
Prima volta a Napoli? E come l'hai vissuta?
Ci ero già stato due anni fa per tenere un workshop. Ho provato una sensazione di profonda connessione, non solo come fotografo, ma come essere umano. Era tutto molto vivo, si respirava energia e mi sono lasciato coinvolgere dalla confusione, dal caos, dal calore, dalla velocità con cui le persone riescono a comunicare tra loro.
La tua intera carriera è caratterizzata da un approccio estremamente intimo: fotografi i tuoi soggetti avvicinandoti molto, quasi invadendo il loro spazio privato. Hai fatto lo stesso a Napoli?
Non invado il loro spazio, però cerco di lavorare a distanza ravvicinata, perché voglio conoscere ciò di cui parlerò con le mie immagini. Non amo fare il voyeur nascosto tra i cespugli, che scatta con un teleobiettivo, preferisco correre dei rischi e incontrare le persone, sentirle, e non posso sentire i miei soggetti a dieci metri di distanza. Non mi interessa invadere la privacy delle persone, voglio solo avvicinarmi per saperne qualcosa, perché credo che questo sia anche un modo per conoscere la città e soprattutto per conoscere meglio me stesso. Si crea una specie di equilibrio con i soggetti che fotografo, non solo con le persone, ma anche con gli animali, o con qualsiasi altra cosa. A volte è necessario abbassarsi per comprendere meglio cosa si ha davanti, bisogna accorciare le distanze.
Come hanno reagito le persone a questo approccio ravvicinato?
La reazione mi è sembrata sempre positiva. Le persone apprezzavano ciò che facevo, erano gentili e curiose. Mi facevano delle domande e io cercavo di comunicare con loro sebbene il mio italiano non sia un granché. A tal proposito devo ringraziare Massimo (Massimo Nicolaci, fotografo siciliano e collaboratore di lunga data della Spot home gallery, n.d.r.), una persona fantastica che mi ha aiutato tantissimo con la traduzione. Girava spesso insieme a me per la città, e camminavamo su due lati opposti del marciapiede, mantenendo un contatto visivo. Quando individuavo un soggetto che avrei voluto fotografare mi bastava fare un semplice cenno col capo e lui intuiva istantaneamente che era tempo di tradurre.
Quindi quando scatti in strada le persone sono preparate?
Non sempre, è impossibile pensare di parlare con chiunque. Scatto così tante foto in mezzo alla gente, a volte in situazioni in cui ci sono molte persone, spesso indaffarate, intente a raggiungere il posto di lavoro. In quel contesto non potrei mai fermarle per spiegare loro che vorrei fotografarle, così mi limito a scattare con il massimo rispetto possibile.
Ti è capitato di trascorrere del tempo insieme ai tuoi soggetti e di condividere momenti importanti con loro?
Assolutamente sì. Cene, feste, funerali, la festa di Halloween. Ho partecipato a un matrimonio: sono stato a casa della sposa e ho fotografato i suoi preparativi, dopodiché abbiamo raggiunto la chiesa, dove ho fatto degli scatti durante la cerimonia. Ho preso parte anche al ricevimento, insieme a Cristina Ferraiuolo e Massimo Nicolaci della Spot home gallery, una cena che sembrava non finire mai. Dopo aver mangiato l’entrecôte più grande che abbia mai visto in vita mia, alle tre del mattino, ero abbastanza stanco e sono andato via. Pare che a quel punto abbiano iniziato a servire le portate di pesce.
A proposito di cibo e della foto che hai scattato a una piramide di pasticcini, cosa diresti a chi sostiene che in una buona composizione la linea dell’orizzonte dovrebbe sempre essere dritta?
Che è sciocco, perché quando guardiamo qualcosa i nostri occhi non sono mai perfettamente allineati con il soggetto. A me piace essere spontaneo, voglio che le mie foto si avvicinino il più possibile al modo in cui il mio sguardo ha percepito la realtà e questo è il motivo per cui utilizzo un 35mm. Volendo essere ancora più preciso dovrei scattare con una lunghezza focale di 43mm, il cui angolo di campo corrisponde esattamente a quello della visione umana.
Tutte le tue immagini sono caratterizzate da forti contrasti. Ce ne parli?
Non ne ho mai parlato. Di norma le mie foto sono contrastate, è vero, sin dagli anni ’60. Solo nel triennio in cui ho scattato fotografie nelle carceri ho ridotto drasticamente i contrasti, ma il risultato non mi è piaciuto molto, così nel successivo progetto dedicato agli istituti psichiatrici sono tornato sui miei passi. La mia intenzione era quella di essere diretto, poetico e al tempo stesso grezzo, ma non troppo.
A proposito di approccio grezzo, quali sono i fotografi che considereresti più vicini al tuo modo di intendere e praticare la fotografia?
Dal mio punto di vista la fotografia è come un grande albero e ciascun ramo corrisponde a una specializzazione, un genere: fotografia di paesaggio, fotografia sportiva, di guerra, naturalistica, documentaria. Credo di poter collocare la mia fotografia su un ramo speciale, sul quale si trovano tanti altri fotografi, appollaiati lì come piccoli uccelli. Tra questi ci sono Christer Strömholm – il mio maestro e amico – Ed van der Elsken, Robert Frank, Weegee, Lisette Model, Diane Arbus e Nan Goldin.
E i fotografi giapponesi?
Sì, assolutamente. Daidō Moriyama è un eroe per me.
Pensavo proprio a lui quando hai pronunciato la parola grezzo. Are, bure, bokeh significa qualcosa per te?
Certamente. L’espressione Are, bure, bokeh è entrata a far parte della storia della fotografia. Ciò che hanno fatto i fotografi giapponesi negli anni ’60, specialmente a Tōkyō, è stato incredibile. Ho seguito il lavoro di Daidō Moriyama per molto tempo e il primo suo libro che ho avuto modo di sfogliare era il catalogo di una sua mostra in California. Era fantastico, mi ha fatto rizzare i peli di tutto il corpo, ho avuto la sensazione che fosse mio fratello. Amo il modo in cui usa la luce, l’assenza di luce, la composizione, l’immediatezza, la poesia: è un genio. Non tutte le foto del catalogo sono buone, ma non importa, nel complesso la percezione è sensazionale. In occasione di una sua mostra a Tōkyō l’ho conosciuto di persona ed è una persona squisita; è umile, curioso, nonché un gran bevitore, in senso buono. Per tornare alla lista di prima, aggiungerei Boris Mikhailov, Michael Ackerman e Antoine d’Agata.
Che fotocamera hai usato per il tuo portfolio a Napoli?
Questa (estrae una fotocamera a pellicola dalla tasca posteriore dei pantaloni, n.d.r.). È una Contax T3 con un 35mm integrato. Quando l’ho comprata era abbastanza economica, l’ho pagata 350 euro, ma ora il prezzo è schizzato a 3.000 euro. Il punto forte è l’obiettivo Zeiss, luminoso e molto nitido.
Utilizzi il flash?
Sì, uso spesso il flash incorporato della fotocamera. Mi capita, in certe situazioni, di coprirne volontariamente una parte con il dito per attenuarne l’effetto. In un bar, ad esempio, se non voglio che un lampo troppo potente colpisca il soggetto, copro il flash spostando il dito a seconda dell’intensità desiderata. Si può usare anche un fazzoletto, ma nella maggior parte dei casi il tempo a disposizione è poco, e la soluzione del dito è più immediata.
Visto che parliamo di fotocamere, ti andrebbe di raccontarci la storia dei clienti del Café Lehmitz che giocavano lanciandosi la tua fotocamera a vicenda?
Ero a St. Pauli, uno dei quartieri più malfamati di Amburgo, e cercavo alcune persone che avevo conosciuto in precedenza. Quando si cercava qualcuno in quel distretto ci si recava in un luogo speciale chiamato Scandi Bar , che sta per Scandinavian Bar, su Seilerstraße. Era un locale notturno, aperto dall’una alle otto o nove del mattino, dedicato a chi lavorava nei dintorni, alle prostitute, alle spogliarelliste, alle ballerine di cabaret. Lì incontrai Gertrude, un’outsider che avevo già conosciuto e che speravo potesse aiutarmi nelle ricerche. Mi disse che le persone che cercavo non c’erano più, che erano quasi tutte morte, perché da quelle parti si moriva presto per via dell’alcol, della cattiva alimentazione, delle droghe.
Concluse che non poteva aiutarmi, ma dopo tre birre cambiò idea. Mi diede appuntamento all’una di notte al Cafè Lehmitz, dove non ero mai stato. Era pieno di gente, suonavano un’ottima musica e faticai a ricavare un posticino per sedermi. Poggiai la fotocamera sul tavolo e un cliente si avvicinò immediatamente chiedendomi se fosse una buona fotocamera. Risposi che a mio avviso lo era, era una Nikon F e lui ribatté che aveva una Kodak Retina, altrettanto buona. Iniziammo a brindare con delle birre al tavolo, per poi spostarci al bancone e passare alla roba pesante, con gli Schnapps.
Arrivarono delle donne, decidemmo di ballare insieme e quando decisi di scattare delle foto mi resi improvvisamente conto che la mia fotocamera era sparita. A un certo punto la vidi volare in aria in lontananza, mentre i clienti del locale se la lanciavano a vicenda scattandosi delle foto tra un lancio e l’altro. Cominciai a ballare in quella direzione e una volta vicino dissi loro che era la mia fotocamera, e che quindi avrebbero dovuto scattare una foto anche a me. Lo trovarono un ragionamento logico, mi scattarono una foto e mi lanciarono la fotocamera, che chiaramente non diedi più a nessuno.
Continuai a scattare, ma ero ubriaco e non mi accorsi che l’esposizione era del tutto sballata, perché era tarata per gli scatti diurni. Gertrude arrivò con due ore di ritardo, mi vide scattare e disse che avrei potuto continuare e così feci per i due anni e mezzo successivi. La mia prima mostra si è tenuta proprio al Cafè Lehmitz. Appesi tutte le stampe 24x30cm sulle pareti, erano almeno trecentocinquanta, e dissi a Kurt, che serviva al banco, che chiunque si fosse riconosciuto in una foto avrebbe potuto prenderla in regalo. Fu una mostra brevissima, in poco tempo una piccola foto che mi ritraeva fu l’ultima rimasta attaccata al muro.
Qual è la cosa più importante che hai imparato dal progetto Cafè Lehmitz?
Che siamo tutti una sola famiglia. Non importa da dove veniamo, qual è la nostra cultura, la nostra religione. Non voglio che le mie fotografie dividano gli esseri umani, ma che vadano nel senso opposto, unendoli. Desidero che le persone si identifichino con le mie immagini, che ritrovino le loro emozioni e le loro sensazioni nei miei scatti. Questa è la cosa più importante per me.
Napoli. Anders Petersen
- Spot home gallery, via Toledo, 66 – Napoli
- dal 21 ottobre 2023 al 31 gennaio 2024
- lunedì-venerdì 15-20, o su appuntamento
- ingresso gratuito
- spothomegallery.com