Brescia
Dal 15 marzo al 24 agosto 2025
L’ottava edizione del Brescia Photo Festival ha un ospite d’eccezione, il grande fotografo Joel Meyerowitz che, nel tempo, ha fatto del colore la sua firma. La mostra Joel Meyerowitz. A Sense of Wonder. Fotografie 1962 – 2022, in esposizione al Museo di Santa Giulia dal 24 marzo al 24 agosto, a cura di Denis Curti, è la più esaustiva retrospettiva dedicata al grande maestro in Italia. Il famoso interprete del paesaggio americano a colori ci racconta la sua carriera, seguendo le immagini e le tematiche che animano la sua mostra.
Il suo lavoro, soprattutto quello dei suoi esordi, spesso, viene inserito all’interno di uno specifico genere fotografico, la street photography. Pensa sia corretto?
Assolutamente sì. Quando ero un giovane fotografo, il tempo lo passavo soprattutto per strada e quando le persone mi chiedevano che tipo di fotografia facessi io rispondevo sempre che lavoravo fotografando la vita quotidiana di strada. Sono assolutamente uno street photographer ed è stata la cosa più naturale del mondo esserlo.
Lei è tra i primi fotografi che hanno esposto fotografie a colori come opere d’arte e approfondito un nuovo modo di “guardare”, elaborando un nuovo concetto di “paesaggio americano” e una riflessione sull’estetica del banale e del quotidiano. Lei, Eggleston, Shore, Friedlander, Winogrand, Joel Sternfeld, il gruppo dei New Topographics avete fatto scuola per vari motivi. Se ne rendeva conto mentre viveva quel periodo?
Non proprio. Ero molto amico di Gary Winogrand. Andavamo sempre a fotografare per strada. Gary scattava principalmente in bianco e nero, ma a volte a colori. Io scattavo a colori e in bianco e nero.
Con il lavoro di Stephen Shore sono venuto in contatto solo anni dopo.
Bill Eggleston, invece, è venuto a trovarmi a New York nel 1968 e mi ha mostrato cinquanta fotografie in bianco e nero; io, a mia volta, gli ho mostrato trecento diapositive a colori. Ha lasciato il mio appartamento alle tre del mattino dicendo: ‘Il colore è tutto per me da ora in poi’. Quindi, forse, potrei essere considerato, come ha fatto in alcuni dei suoi libri Eggleston stesso, la persona che lo ha stimolato a pensare al colore.
Come il suo sguardo sull’America è cambiato nel tempo?
Quando ho iniziato nei primi anni ’60, per me era solo l’America. Poi me ne sono andato, per un anno, in Europa. In un anno intero ho prodotto oltre settecento rullini a colori e in bianco e nero.
Quando sono tornato l’America mi è sembrata davvero diversa, cambiata: la guerra in Vietnam era in pieno svolgimento, la gente protestava, la natura del Paese era cambiata. Non era innocente come prima, in quel momento era un Paese che stava perdendo una guerra.
È in quel periodo storico che l’America ha iniziato a sembrare un posto diverso, un posto che stava iniziando a fallire, mentre la società era nettamente divisa tra persone più o meno benestanti.
A me, in realtà, questo scenario ha offerto la fantastica opportunità di realizzare un nuovo corpus di lavori, per il quale ho fatto domanda per una borsa di studio Guggenheim. Alla fine quella borsa la vinsi e spero che presto quelle immagini diventino un libro, finalmente, intitolato Still Going. America during Vietnam.
In mostra è presente una sezione specifica sulla sua pratica ritrattistica. Come i volti dei suoi soggetti dialogano con le sue fotografie urbane, con un immaginario più concettuale che porta avanti la sua idea di paesaggio americano?
I ritratti sono nati da un periodo in cui ho iniziato ad usare il grande formato 20x25cm, noi lo chiamiamo anche 8×10 (sottinteso pollici, ndr). Seguendo l’evoluzione del mio lavoro, introdussi questa novità perché volevo più dettaglio nelle mie fotografie, realizzando stampe molto grandi.
Iniziando ad usare la macchina fotografica di grande formato ho notato una differenza di approccio con i miei soggetti, già dall’inizio, da quando mi avvicinavo a loro per chiedere di scattare una foto.
Con una 35mm ovviamente puoi muoverti rapidamente e le persone non devono necessariamente sapere che hai scattato il loro ritratto, ma con il grande formato non passi inosservato, sei totalmente visibile. Con la mia nuova visibilità ho dovuto fare i conti, prima di tutto, rispetto alle persone a cui volevo scattare la fotografia. Dovevano trasmettere qualcosa che ai miei occhi sembrasse la loro vera essenza, la verità su chi erano, per quanto ne sapevo. Perché, ricordiamolo, la mia verità e la loro verità sono due cose diverse.
Come il suo recente lavoro di autoritratti si inserisce nel suo pensiero fotografico?
Questa è una domanda molto interessante, perché nel corso degli anni, ogni sei o sette anni, il mio modo di fare fotografia ha cambiato direzione. Inizialmente mi interessavo a un tema, o comunque qualcosa coglieva la mia attenzione, e ci mettevo sei o sette anni per la sua totale elaborazione, che si trattasse di paesaggi o nature morte o scatti da un’auto in movimento o foto europee o ritratti di strada.
Ci sono così tanti modi diversi di scattare foto. Ma nel 2020, appena prima della pandemia, in realtà alla vigilia di Capodanno del 2020, mi sono chiesto cosa non avessi mai fatto. Riflettendo sulla modalità del selfie, che tutto il mondo produce incontrollatamente, ho capito che il selfie, in quanto tale, non mi apparteneva, ma ho iniziato a pensare a come poter produrre degli autoritratti.
Successivamente ho scelto di usare la fotocamera Leica, impostandola con un timer di dodici secondi, attivabile da remoto tramite il cellulare. Durante il giorno mi fotografavo mentre facevo qualunque cosa, ad esempio ero in cucina e stavo cucinando una frittata, sapendo che l’avrei dovuta girare e l’idea di fotografarmi così mi divertiva.
Così piazzavo la macchina fotografica da qualche parte nella stanza, rivolta verso la cucina, cucinavo la mia frittata e quando pensavo fosse il momento giusto, premevo semplicemente il pulsante del telefono e giravo la frittata, mentre la macchina fotografica scattava la foto. Il momento dello scatto e la mia azione di girare la frittata erano approssimativamente in sincronia, quindi a volte riuscivo a cogliere la frittata sospesa in aria, altre volte no. In un certo senso, pensavo all’autoritratto come se ci fosse un secondo fotografo nella stanza che scattava queste fotografie di me, volevo dare questa impressione. Non volevo che si manifestasse la mia intenzione di autoritrarmi.
Lei è stato l’unico fotografo autorizzato a documentare il distretto del World Trade Center di New York nei giorni successivi agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. In quella situazione così emotivamente e umanamente devastante, su cosa si concentrò il suo sguardo?
Poiché ero l’unico fotografo autorizzato a stare lì ho cercato di essere ovunque, tutto in una volta, per tutto il tempo in cui ci sono stato. Ho lavorato fino a quattordici ore al giorno, fino a notte fonda.
Portavo con me una macchina fotografica di grande formato, una Leica 35 millimetri, una medioformato 6×7 e una videocamera.
Ho cercato di documentare tutto quello che è successo, la rimozione dei detriti, il ritrovamento dei resti umani, gli sforzi da parte degli operai siderurgici, le persone che si sono prese cura di tutti quelli che erano laggiù. Ho cercato di documentare il più possibile anche se il sindaco di New York, Giuliani, il nostro fascista Giuliani, aveva deciso che non era consentita alcuna fotografia. A questa decisione mi sono ribellato, d’altronde la libertà di parola è un diritto e la fotografia è una forma di libertà di parola. Quindi ho deciso che avrei aggirato il sindaco, sarei entrato e avrei scattato le mie fotografie perché pensavo che avessimo bisogno di questa documentazione. E così oggi esiste una documentazione di oltre 8.000 fotografie di come appariva l’interno di Ground Zero.
In una sezione della mostra, The colour questions, due immagini molto simili vengono riprodotte una a colori e una in bianco e nero. Qual è la riflessione in merito a questa scelta? Cosa ha apportato il colore al suo pensiero fotografico rispetto al bianco e nero?
Nei primi anni ’60, nel 1963 per la precisione, quando ho iniziato, il bianco e nero era considerato l’unica forma seria per realizzare una fotografia. Il colore era considerato commerciale, amatoriale, o semplicemente non degno di essere mostrato. Il bianco e nero era l’unica forma d’arte.
Ma ero un ragazzo di ventiquattro anni. Ero stato un pittore e in quel momento ero un grafico e riflettevo sul colore, sul fatto che il mondo intero fosse a colori. Non volevo arrendermi alla tradizione e nessuno mi poteva dire di non usare il colore e così quando ho potuto permettermi una seconda macchina fotografica, ho iniziato a portarne con me due, cercando di fare sempre due foto ugualmente interessanti, una in bianco e nero e l’altra a colori.
Se succedeva qualcosa, dovevo essere così veloce da poter fare una seconda foto prima che sparisse. In questo modo, almeno, potevo vedere come appariva a colori e come appariva in bianco e nero. In seguito, ho pensato che avrei potuto mostrare queste immagini come dei dittici e avrei potuto insegnare ad altre persone a vederle come le vedo io.
Questa è stata la genesi di quel progetto. Oggigiorno non ci si pensa più troppo visto che tutti, anche fotografando con il telefono, possono passare dal colore al bianco e nero ogni volta che desiderano.
In mostra ci sono anche delle fotografie prodotte nello studio di Giorgio Morandi. Conosce il lavoro che Luigi Ghirri produsse in dialogo, anche lui, con le opere di Giorgio Morandi? In un certo senso Luigi Ghirri applicò la vostra lezione americana sul paesaggio italiano e sul suo modo di guardare il mondo e di fotografarlo…
Rispetto al lavoro di Ghirri, le esigenze del mio progetto erano molto diverse. Volevo guardare gli oggetti che Morandi aveva scelto di dipingere per vedere se potevo trovare in ognuno di loro qualche qualità, qualche caratteristica dell’oggetto stesso che Morandi, seduto al suo tavolo, aveva selezionato. Deve averli osservati lentamente per vedere quale lato gli dicesse qualcosa. Io volevo cogliere quella scelta. Ho guardato quegli oggetti cercando di percepirne l’anima, come Morandi potrebbe aver fatto. Con questo intento, sono rimasto seduto per giorni al suo tavolo. Ho persino indossato la sua giacca da pittore in modo da immergermi totalmente nel suo mondo, cercando di percepire la realtà come la percepiva lui.
Joel Meyerowitz. A Sense of Wonder. Fotografie 1962 – 2022
- A cura di Denis Curti
- Museo di Santa Giulia, via dei Musei, 81b – Brescia
- dal 25 marzo al 24 agosto 2025
- mar-dom 10-18. Lunedì chiuso
- intero12 euro, ridotto 10 euro
- bresciamusei.com
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