Intervista esclusiva al fotografo americano Joel Meyerowitz in occasione della prima esposizione pubblica dei ritratti di Provincetown, scattati tra gli Anni ‘70 e ‘80 in una cittadina del Massachusetts e raccolti in un libro di recente pubblicazione. Immagini in gran parte inedite la cui attualità resta intatta nonostante lo scorrere del tempo.
Nato a New York nel 1938, Joel Meyerowitz è stato uno dei primi fotografi a utilizzare il colore quando ancora si credeva che solo il bianco e nero potesse aspirare a entrare nei musei. Erano i primissimi Anni ‘60 e da allora ha pubblicato oltre trenta libri, di cui l’ultimo è How I Make Photographs (Laurence King Publishing), un manuale con le sue lezioni e i suoi consigli agli aspiranti fotografi. Ma le immagini di questo articolo sono tratte da Provincetown, una raccolta di ritratti scattati oltre quarant’anni fa. Dato il tempo trascorso viene da chiedere all’autore se oggi questi ritratti gli parlino in un modo diverso. “Quando li realizzai stavo apprendendo la disciplina e l’arte del ritratto e capendo di chi sia veramente un ritratto. Allo stesso tempo assistevo alla comparsa di ciò che sarebbe diventato il movimento delle istanze gender e a un cambiamento dell’estetica del corpo: i tatuaggi, i piercing, pettinature più aggressive. Tutti modi per delineare la propria individualità. C’era quello e una nuova forza sociale di gay, lesbiche, trans, travestiti, bisessuali. Mi limitai a documentare chiunque mi sembrasse interessante. Ma era prima dell’esplosione del movimento negli Anni 2000 e quindi Aperture ha riconosciuto una rinnovata importanza di questo mio lavoro”. Alcune fotografie di Provincetown sono incluse in una mostra collettiva alla Helmut Newton Foundation di Berlino.
Credi che il modo in cui viene mostrata una foto possa alterarne il significato o l’impatto?
C’è una grande intimità quando un osservatore tiene in mano una stampa o un libro entrando nell’inquadratura e potendo guardare l’immagine da solo. Ma in un museo le stampe possono fungere meglio da finestre che si aprono sulle immagini. Alcune stampe sono alte tre metri: ciò crea una presenza ‘monumentale’, forse tanto grande quanto lo era quella persona nella vita reale e ciò sicuramente modifica come si percepisce sia l’immagine, sia la realtà. Tuttavia ho visto mostre con pochi visitatori e quindi l’osservatore poteva stare da solo con la fotografia, avere tempo per studiarla e arrivare alle proprie conclusioni su ciò che guardava e sul suo impatto. E ora, con il Covid-19 che determina lo spazio e il tempo in un museo, possiamo avere questo tempo espanso per una visione e una riflessione reali.
Come interagisci con le persone che ritrai? Funziona meglio se entri in intimità con loro oppure se mantieni un distacco professionale?
Penso sia meglio quando c’è una connessione intima con il soggetto, anche se è per i soli pochi minuti trascorsi insieme. Senza di essa la comprensione profonda tra estranei può fallire e ci si può ritrovare con una foto vanitosa o una posa da pseudo-celebrità. Ma io cercavo la rivelazione, di provare a fare in modo che mi offrissero il loro mistero.
Si ha l’impressione che molte delle persone che fotografi non lascino trapelare emozioni. Quanto dipende dalla tua ricerca estetica e quanto invece da ciò che cerchi di comunicare all’osservatore?
Chiesi loro, nella maniera più semplice, di sentirsi a proprio agio ed essere naturali, di non recitare per me. Ma dato che usavo una macchina fotografica di grande formato con un’esposizione molto lunga avevo bisogno che fossero immobili e focalizzati, e loro reagirono come si vede nelle foto. Guardavano dentro all’obiettivo mentre io ero di lato, dunque effettivamente erano soli con loro stessi proprio come quando ci guardiamo allo specchio prima di uscire. Poi, quando vedevo un momento di loro apertura, chiudevo l’otturatore.
Il tuo lavoro consiste principalmente di ritratti e paesaggi sia urbani sia naturali. Diresti che puoi guardare il mondo in due modi diversi? O c’è una linea di continuità che lega tutti i tuoi scatti e li rende un unico corpus fotografico?
Ora parlo due lingue: il jazz della street photography, con la sua immediatezza e le sue rivelazioni inaspettate, e la musica classica del grande formato in cui entra in gioco un senso del tempo e del valore della riflessione. Ogni lingua richiede un comportamento diverso ma sotto sotto ci sono sempre io e nonostante la mia velocità e la mia tempistica possano variare, continuo ad assecondare specifiche pulsioni che innescano le mie reazioni più profonde.
Hai un rapporto speciale con l’Italia. Hai pubblicato un libro dedicato a Giorgio Morandi e vivi nel nostro Paese da sei anni. Ci sono dei fotografi italiani che ammiri particolarmente?
Ce ne sono molti di cui conosco il lavoro e che stimo. Troppi sono quelli sottovalutati nel mondo della fotografia. Ho conosciuto Luigi Ghirri negli Anni ‘70. Ci eravamo incontrati a New York ed entrambi notammo una connessione tra i nostri modi di vedere. Ho lavorato con Gabriele Basilico e Olivo Barbieri e ho grande rispetto per il lavoro di Gianni Berengo Gardin e Guido Guidi. Ora ci sono fotografi più giovani che stanno facendo un lavoro importante: Ciro Frank Schiappa, Giorgio Barrera e altri che spero porteranno l’Italia ad ampliare il dibattito sulla fotografia.
Alcune fotografie contenute in questo articolo fanno della mostra collettiva America 1970s/80s: Hofer, Metzner, Meyerowitz, Newton
- Helmut Newton Foundation Berlino
- 8 ottobre 2020 – 16 maggio 2021
- helmutnewton.com
Il libro
Titolo Provincetown
Autore William Mullan
Illustrazioni 100
Pagine 160
Prezzo 70 euro c.a.
Editore Aperture, 2019