Conosciuto per il suo modo viscerale e altamente emozionale di raccontare la sua intimità e la realtà filtrata dalla sua vita, Michael Ackerman traspone in immagini un magma viscoso fatto di emozioni, esperienze, storie di vita, flussi di esistenza, senza paura di rivelare le porte del suo animo, di fotografo, ma soprattutto di uomo.
A Napoli, alla Spot Home Gallery, fino al 30 giugno, è esposta Homecoming. New York, Varanasi, Napoli, una sua mostra che rivela molto del suo concetto di “casa”, un sentimento intimo e personale che ha poco a che fare con un guscio di mattoni. Ecco cosa ci ha raccontato.
La tua mostra si intitola Homecoming. New York, Varanasi, Napoli. Cosa rappresentano per te queste tre città?
Sono tre luoghi che amo, in cui sono tornato ripetutamente nella mia vita e dove ho fotografato di più. New York è la mia casa, anche se non ci vivo più. Sono cresciuto lì dopo essere emigrato da Israele all’età di 7 anni. Sono diventato un fotografo lì. Sono diventato me stesso lì e vi appartengo. È diversa da qualsiasi altra città che conosco perché persone provenienti da tutto il mondo coesistono ed è una cosa che funziona. L’umanità è così ricca, così profonda. Il contatto che ho con le persone che incontro e fotografo è la cosa più importante nella mia vita lavorativa. Ho bisogno di questo contatto.
Varanasi è il luogo verso cui a 25 anni, per la prima volta nella mia vita, ho viaggiato da solo, lontano dalla mia famiglia e da casa. La città indiana mi ha ispirato, mi ha preso in un modo molto potente e l’ho esplorata con tutta la mia giovane energia. Lì, tutte le cose nascoste in Occidente sono allo scoperto: cosa assai importante, nella vita quotidiana sono presenti gli animali, ed è presente anche la morte.
Quando ero a Varanasi ho conosciuto un uomo che mi osservava fotografare sul fiume Gange e mi disse che avrei amato Napoli. Lui era, ovviamente, di Napoli. Quindi ci andai tre anni dopo, per il capodanno del 2000. L’uomo aveva ragione. È stato pazzesco e ho adorato subito la città. Così, da allora, ho iniziato il mio rapporto con Napoli. Ho ottimi amici qui e la amo ancora. Penso che sia l’unica vera città rimasta in Europa. Con questo intendo dire che esiste ancora con tutta la sua energia, la bellezza della storia e gli strati di mistero. Non è ancora totalmente globalizzata. È ancora reale.
Ciò che queste tre città hanno in comune è che la loro bellezza è nella loro nudità. Quando ci si è dentro, si è consapevoli, emozionalmente, di essere umani.
Come anche in tuoi precedenti lavori, anche per la mostra Homecoming. New York, Varanasi, Napoli, la città e il paesaggio urbano non sono per forza riconoscibili. È altro che tu vuoi trasferire all’occhio dello spettatore, ma cosa?
Non sono sicuro di poterlo esprimere con le parole. Ecco perché sono un fotografo. Ma ci proverò: penso di cercare qualcosa di più interiore. Non sono religioso ma credo nello spirito delle persone, dei paesaggi, degli animali. Quando c’è una rivelazione oltre la superficie. Quando c’è verità.
Documentazione, autobiografia e dimensione onirica, in che percentuale e come lavorano insieme queste tre componenti per creare le tue immagini?
Penso che si combinino per formare una nuova dimensione, una storia aperta che non può essere facilmente spiegata, ma è in qualche modo ovvia.
La mostra permette di giustapporre il primo Ackerman con quello più recente. Nelle sezioni relative a New York e Varanasi, ad esempio, sono esposte fotografie degli anni Novanta e altre più attuali. Cosa le unisce e cosa le separa?
Le mie prime fotografie sono state fatte più rapidamente, in modo anonimo. Quando ero giovane, per strada, desideravo essere invisibile e prendere dalla vita ciò che mi incuriosiva. Ora ho bisogno di più tempo, tanto con le persone quanto con i luoghi. Ho bisogno di parlare con loro. Ho bisogno di conoscerli di più, vedendoli ed incontrandoli ancora e ancora.
La fotografia sembra servirti non solo come linguaggio creativo per rivelare la tua visione, ma proprio come strumento esistenziale, come mezzo per fare tua la realtà che vivi. È così?
Non sono sicuro di cosa intendi. La realtà che ognuno vive è la propria. E nessuna realtà è semplice o facilmente definibile. Sono un fotografo, un amico, un marito, un padre, un fratello, un figlio. Ma sì, ne sono ossessionato al punto che mi schiaccia.
Qual è il fotografo che ti ha maggiormente ispirato? E a quale lasceresti “in eredità” la tua visione?
Quando ero un principiante assoluto sono stato influenzato da tutti quelli che vedevo nei libri fotografici e nelle riviste. Poi, man mano che mi evolvevo, molto di ciò che mi piaceva prima diventava meno interessante, più superficiale. Ma molti dei fotografi che amo (e scrittori, registi, pittori, musicisti) sono rimasti miei insegnanti e ispiratori per tutta la vita. Sono quelli ovvi: Diane Arbus, Boris Mikhailov, Gary Winogrand, Anders Petersen, Sally Mann, Masao Yamamoto, Belloq e tanti altri. Oltre ai miei buoni amici fotografi che sono in diverse parti del mondo. Siamo una famiglia frammentata, da cui imparo tantissimo. Il mio lavoro, senza di loro, sarebbe impossibile. E, comunque, nessuno mi ha influenzato più di Robert Frank.
Non saprei cosa risponderti sul nome del fotografo a cui lasciare la mia eredità, ma vorrei poter trasmettere a mia figlia il mio amore per il lavoro, per la ricerca, per le domande, per l’apprendimento, per la vita.
Homecoming. New York, Varanasi, Napoli
- Spot Home Gallery, Via Toledo, 66 - Napoli
- dal 13 aprile al 30 giugno 2023
- lunedì-venerdì, 15-20 o su appuntamento
- ingresso gratuito
- www.ernst-leitz-museum.com