Sofia Uslenghi è una fotografa che incamera nelle sue immagini la sua storia personale, intesa come ricerca delle proprie radici, ma anche intellettuale, portando in rilievo la grande influenza che la pittura del XX secolo ha avuto su di lei e la sua indagine visiva.
La tua produzione si concentra specificamente sull’autoritratto. Molti sono gli esempi nella storia dell’arte e della fotografia. Chi sono i tuoi modelli?
È molto difficile per me rispondere a questa domanda. Ci sono sicuramente moltissimi riferimenti, autori e produzioni artistiche che assorbo e faccio miei anche senza averne una piena coscienza. Ci sono però due caratteristiche che stimolano la mia attenzione più di altre. La prima è legata al fatto che istintivamente dentro le opere degli altri cerco un suono o un rumore. Tendenzialmente se in queste opere c’è silenzio mi ci ritrovo di più. E su tutti l’unico che mi sento di citare è Edward Weston.
L’altra caratteristica è più legata probabilmente alla necessità propria di un autore di produrre qualcosa, che sia un film, musica, una fotografia, o un dipinto. Ovvero lo slancio di andare oltre la realtà, di manipolarla e distorcerla a favore della propria necessità di narrazione. In questo caso sicuramente attingo alla corrente degli artisti surrealisti. Quello che mi attrae del loro modo di intendere l’arte è che sia totalizzante, che deformi prima di tutto un modo di pensare prestabilito dalla società o dalla condizione umana e che si declini su ogni aspetto del proprio vissuto, compreso – quasi per ultimo – sul risultato della propria produzione artistica.
Come nasce la tua voglia di narrazione tramite l’autoritratto?
Ho iniziato ad autoritrarmi più o meno dopo la fine del liceo. All’epoca non producevo ovviamente niente di preciso, né in termini estetici né in termini progettuali. Il tutto nasceva dal fatto di avere in mano una sorta di specchio non giudicante e dall’altra parte me stessa che invece massacravo di giudizi. Sempre con l’intenzione di crearmi intorno il silenzio e ricostruire una relazione da zero con me stessa, ho iniziato a sperimentare, ad aggiustare il tiro e pacificare questa relazione con il solo atto di fotografarmi, indipendentemente dal risultato. Col tempo questa relazione, come tutte le relazioni lunghe, si è stabilizzata e sono riuscita ad approfondirla, a dare spazio ad altre questioni, ad altre storie, ad altri sentimenti che avevo bisogno di rimettere a fuoco.
Con la tua ricerca fotografica indaghi te stessa ma soprattutto le tue radici: i volti della tua famiglia, ma anche i luoghi. Ci parli di “Maps”?
Maps è il lavoro successivo ad Homesick e My Grandmother and I. In questi ultimi due progetti le immagini erano in bianco e nero e le sovrapposizioni di autoritratti con paesaggi o foto di famiglia erano chiaramente identificabili. In Maps invece mi sono allontanata un po’ da quell’estetica, con l’intento di essere meno didascalica e cercando di nascondere sia me stessa che il territorio, creando un’immagine unica e difficilmente divisibile visivamente. Io sono in genere meno riconoscibile, il territorio è diventato un’immagine satellitare, il tutto a colori, e il risultato è più pittorico, più amalgamato. Le immagini che compongono questo progetto sono sicuramente più oniriche e questo credo abbia dato la possibilità alle fotografie di essere percepite in maniera più personale anche dallo spettatore, o almeno questa era una parte della mia intenzione. Rispetto a un paesaggio definito, una citazione precisa di un luogo, voglio rimandare a qualcosa di intimo e personale ma che allo stesso tempo appartenga a chiunque, ovvero la necessità di ognuno di noi di sentirsi “a casa”, protetto da un luogo o dalla comunità che lo abita.
Nell’introduzione a uno dei tuoi ultimi lavori, “art NOject.”, scrivi: “Queste fotografie che sto facendo non hanno niente di progettuale, sembrano e sono solo estetica. Ma ammetto che qualcosa raccontano.” Cosa raccontano?
I miei progetti non partono dall’essere pensati e poi realizzati. In genere le motivazioni e il fil rouge arrivano solo alla fine, o almeno a metà strada. Quando ho scritto che potevano sembrare solo estetica ma che qualcosa raccontavano non avevo ancora le idee chiare. Ho iniziato a lavorare ad artNOject all’inizio del 2021, in un periodo di piena pandemia. Mi ricordo sicuramente la sensazione soffocante di mancanza di stimoli data dalle restrizioni su musei, mostre, concerti ed eventi. Avevo perso una parte delle fonti di ispirazione necessarie, date dalla quotidianità, da eventi non per forza particolarmente rilevanti, e mi sentivo in una gabbia che, per come sono fatta, mi era abbastanza insopportabile.
In una seconda rilettura del progetto ho aggiunto però anche un’altra chiave: la fotografia parte da un’indiscutibile base di verità. Quello che fotografo esiste. Ma dall’altra parte questa verità può essere stravolta, “stretchata”, distorta, riconsiderata. E questa possibilità mi è sembrata consolatoria e necessaria in un momento in cui da una parte i recinti si sono fatti più stretti e dall’altra io avevo invece il bisogno di evadere e non avere limiti imposti.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Sto lavorando per chiudere, forse in via definitiva, i miei progetti sul territorio e sulle mie origini. Ho in cantiere un libro e altre cose che per adesso non posso svelare. E sul futuro non ho idea, ma sono abituata all’idea di non avercela.