La fotografia di Paolo Galletta è una fotografia che indaga ciò che è messo al margine dalla storia, dalla vita, dalla memoria. Il fotografo siciliano, di Messina, fa della sua produzione un monito sociale, civile, alternando lo stile documentario e reportagistico con visioni concettuali e messe in scena. Il suo metodo di lavoro implica sempre un’immersione completa nel territorio, nella quotidianità – anche cruda e difficile – dei suoi soggetti, con tutte le emozioni che questo coinvolgimento in prima persona implica.
Abbiamo chiacchierato con lui per farci raccontare i suoi progetto e la sua idea di fotografia.
Qual è il percorso che definisce la tua carriera come fotografo, sia dal punto di vista dell’esperienza che dal punto di vista concettuale?
È un viaggio fatto di curiosità e incontri. Ho iniziato con il desiderio di raccontare ciò che avevo davanti agli occhi, ma con il tempo ho scoperto che ciò che mi attrae davvero è scalfire la superficie delle cose. Immagino quello che restituisce la fotografia come un’altra dimensione che viaggia tra visibile e invisibile, quello che appare nel risultato di una foto è affine alla realtà ma su un piano diverso. Questa mia percezione è stata fonte di ispirazione per il mio modo di guardare e restituire il mondo.
Per me la fotografia non è immagine, ma indagine; è un modo per immergermi nelle cose e allo stesso tempo interrogarmi, interpretare lo spazio tra realtà ‘percepita’ e realtà ‘restituita’.
La mia carriera la percepisco come una serie di tappe concluse, intervallate da vuoti bui, ma allo stesso tempo un viaggio che continua a sorprendermi di quanto possa scoprire sempre qualcosa di me stesso.
Si percepisce nei tuoi recenti lavori come Bosnia Erzegovina e Ferentari una particolare immersione sociale nel territorio che indaghi. Secondo quale pensiero trovi gli argomenti dei tuoi lavori e come ti approcci a zone particolarmente difficili e anche pericolose?
Ogni volta che mi trovo in luoghi con situazioni complicate da un punto di vista emotivo e con ferite aperte che li caratterizzano – come espresso in Bosnia Erzegovina o in Ferentari, ma aggiungerei anche in Parco Verde e più in generale nel lavoro sulla Terra dei Fuochi – mi affido sempre al rispetto e alla lentezza del mio approccio. Interpreto i luoghi vivendoli, facendomi accettare, costruendo un rapporto di fiducia reciproca. Ciò che cerco è l’umanità che sopravvive, anche nei posti più marginali e feriti. È un processo che richiede molto tempo, ma è anche l’unico modo per presentare un risultato frutto di empatia e di comune immersione nelle dinamiche che si vogliono raccontare.
Spesso mi sono trovato in situazioni difficili e complesse, potenzialmente pericolose. Tessere una rete di contatti che ti aiutino è fondamentale, spesso serve l’intercessione di qualcuno del luogo per farsi accettare da spacciatori o da chi davvero vive situazioni di estremo disagio, che possono essere gravi malattie o tossicodipendenze, come per il lavoro di Parco Verde, ambientato a Caivano, in provincia di Napoli. Solitamente individuo i temi dei miei lavori lasciandomi attrarre da luoghi e persone, che fanno emergere in me l’esigenza di raccontare. Quello che cerco è una realtà capace di parlare in profondità, di raccontare un’esperienza umana autentica e universale.
Nello specifico molte tue immagini raccontano di disagio sociale, isolamento, violenza, storie personali difficili. In che modo ti avvicini ai tuoi soggetti e alla loro particolare storia di vita?
In progetti come Corviale, ho incontrato persone che vivono situazioni complesse legate alla marginalità urbana, alla droga e all’esclusione sociale, ma con un forte senso di riscatto. Ho trascorso molto tempo con loro, condividendo momenti quotidiani, ascoltando storie e lasciando che fossero loro a guidare la narrazione. In Parco Verde, i temi principali sono il narcotraffico e la dipendenza, insieme alle cicatrici causate da tumori e malattie che la Terra dei Fuochi infligge agli abitanti di quei luoghi. Ogni corpo racconta la propria storia e le difficoltà vissute, e fotografarli richiede delicatezza e consapevolezza. Solo con il tempo è possibile fare questo tipo di lavoro.
Il tuo lavoro ha, per lo più, un taglio reportagistico, ma ci sono progetti, come Pad. 18, che si caricano anche di una particolare ricerca estetica e di un’idea compositiva diversa dal resto. Ci racconti quel lavoro e come l’hai concepito dal punto di vista visivo?
Come detto prima, il concettuale e l’interpretazione dell’altra ‘dimensione’ mi portano alla realizzazione di lavori studiati e costruiti per dare una forma alle mie idee in relazione ad alcuni luoghi o fenomeni sociali. Pad. 18 è un lavoro che è nato scoprendo l’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma, un’esperienza emotivamente forte. Il padiglione 18, in particolare, era riservato ai pazienti considerati pericolosi e tutta la forza di quella struttura, percorrendo i corridoi, ti entra proprio sotto la pelle, considerando anche la sua condizione di abbandono e fatiscenza, ma con ancora i segni forti del terribile vissuto che lo caratterizza. Insieme ad alcuni attori ho provato a far rivivere le dinamiche di profonda sofferenza e la relazione tra gli aspetti nascosti e controversi che albergano nella nostra psiche.
Prima gli italiani? è un progetto di ritratti. Con che modalità l’hai realizzato e cosa vuole simboleggiare?
Più che un lavoro, è stato una presa di posizione forte e netta. All’epoca era in atto una forte ondata di immigrazione, centinaia e centinaia di persone sbarcavano in Italia su barconi provenienti prevalentemente dalla Libia, carichi di esseri umani di origine africana e medio orientale. Tanta gente si opponeva all’accoglienza al grido di ‘prima gli italiani’, io ho pensato di aggiungerci un punto interrogativo dando un titolo provocatorio a questo lavoro, che simboleggia la profonda somiglianza tra quei movimenti migratori e il fenomeno dell’emigrazione che ha caratterizzato l’Italia stessa dai primi del ’900. I soggetti raffigurati nelle foto sono veri immigrati che da poco erano nel nostro territorio, provenienti dai centri di accoglienza di Messina e Barcellona Pozzo di Gotto, vestiti con indumenti e con le classiche ‘valigie di cartone’ che caratterizzavano i nostri emigranti cento anni prima.
Ai ragazzi che hanno posato erano state precedentemente spiegate le finalità del progetto, che hanno subito sposato.
Ho scattato con una fotocamera Sony Alpha 7R III e per ottenere una tridimensionalità abbastanza naturale ho posizionato un flash frontale con un grande softbox ottagonale e altri due flash dietro, a destra e sinistra, in modo speculare. Infine, ho usato la postproduzione per dare un senso di antico.
Il tuo modo di fotografare spesso documenta il concetto di “memoria”. Lo fai con uno sguardo non giudicante, o pensi che le tue immagini esprimano anche una tua presa di posizione?
Nei miei progetti la memoria non è mai un concetto astratto, ma qualcosa che prende forma concreta nei volti che incontro, nei luoghi e negli oggetti. In Bosnia Erzegovina, ad esempio, la memoria è fatta di ferite, riconducibili alla guerra, ancora visibili, mentre in Ferentari si manifesta nella quotidianità che resiste nonostante tutto. Le abitazioni, che erano i casermoni ai tempi del regime di Ceausescu, fanno da scenografia, dove il passato si manifesta come presente.
Spesso ritraggo le persone con la fotografia di un parente morto, perché è proprio in quei gesti, in quegli oggetti che portano con sé, che la memoria diventa racconto vivo.
Quando fotografo, non cerco mai di imporre un giudizio, mi interessa piuttosto creare lo spazio per ascoltare e restituire, lasciando che siano le persone stesse a raccontarsi attraverso ciò che mostrano e conservano. Naturalmente il mio sguardo non è neutro, ogni scelta di un volto, un silenzio, una foto tra le mani, è già una presa di posizione. Non come giudizio, ma come responsabilità di affermare che quelle storie e quelle memorie hanno valore e meritano di essere viste.
Chi o cosa ha maggiormente influenzato la tua idea di fotografia?
Tanti libri, tanto cinema, tanti autori, soprattutto partecipare a workshop negli anni. Questi incontri diretti sono stati fondamentali. Sarebbe riduttivo elencarli, sono davvero tanti, su tutti sicuramente Paolo Pellegrin, Michael Ackerman, Antoine D’Agata, David Alan Harvey e tanti altri, tutti con stili e approcci profondamente diversi tra loro. La commistione di idee e di visioni è profondamente entrata nel mio modo di rappresentare ciò che vedo.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Paolo Galletta sono disponibili sul sito del fotografo www.paologalletta.com.
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