In Giappone l’elemento spirituale è alla base di un modo di vedere e di pensare, di vivere il mondo e di conoscerlo. Così è anche per il fotografo Yoshiki Hase che con il progetto Ena pare raccontare di un villaggio, nella campagna giapponese, il villaggio di Ena, per l’appunto. Le sue fotografie non vogliono tanto definire il luogo o le persone, quanto trasmettere una relazione archetipica più profonda tra gli elementi della natura. Nel suo lavoro, i soggetti umani ritratti non hanno nessun collegamento diretto con i luoghi in cui vengono inseriti e spesso nemmeno tra gli stessi soggetti c’è alcun nesso. Quello che il fotografo vuole cogliere, piuttosto, è un’aura ancestrale che abbraccia il tutto, una Grande Madre in cui tutto è raccolto e da cui tutto nasce.
Abbiamo intervistato l’autore per farci raccontare il suo progetto.
Come nasce il tuo progetto Ena?
Tutto è iniziato quando sono stato chiamato al villaggio di Ena, in Giappone, per scattare foto per un film. Durante le riprese, ho conosciuto molte persone del posto. Per me, cresciuto a Tokyo, è stata la prima esperienza con la foresta fitta, le risaie, le vecchie case giapponesi, la vita della gente e la campagna. Casualmente, questa città era anche il luogo di nascita di mio padre. Anche dopo la fine del progetto cinematografico ho deciso di continuare a visitarla da solo e ho iniziato il progetto fotografico. Nei sette anni successivi, ho visitato Ena circa cinquanta volte.
Qual è la storia del villaggio giapponese di Ena?
Ena è una cittadina rurale situata a 300 chilometri a ovest della capitale Tokyo. Sebbene non sia una città molto conosciuta, è circondata da montagne sacre che compaiono in miti risalenti a 1.300 anni fa. In giapponese esiste un concetto chiamato ‘kotodama’, lo spirito delle parole, secondo il quale ogni suono prodotto dalla voce ha un significato spirituale, ancor prima di trasmettere un significato relativo al contenuto. L’interpretazione mitologica e poco conosciuta del suono ‘Ena’ è ‘placenta’. Sebbene questo non abbia alcun collegamento diretto con il lavoro, ritengo che vi sia, comunque, un legame psicologico e spirituale.
Qual è stato il tuo processo creativo per produrre Ena?
Solitamente quando mi recavo a Ena per il progetto, guidavo in giro per il villaggio, durante il giorno, cercando location. La sera, invece, bevevo e stavo con la gente del posto che avevo incontrato. Procedendo in questo modo, un archivio di persone e luoghi si è accumulato dentro di me, nella mia mente.
Successivamente, quando ancora il progetto era in una fase mentale, abbinavo lentamente le persone ai luoghi e, a un certo punto, l’ispirazione mi colpiva. Quando, invece, si è trattato di mettere in pratica le mie idee, a seconda della situazione, collaboravo con la gente del posto per creare la giusta ambientazione, aggiungendo o rimuovendo oggetti di scena.
Mi sono approcciato a questo processo di produzione con un senso di ‘bricolage’. A volte, il legame tra persone e luoghi si è rivelato autentico, rendendo il lavoro più documentaristico, mentre altre volte mi sono fatto guidare dalla pura fantasia creativa.
Tuttavia, non considero ‘vere’ esclusivamente le immagini più documentaristiche, perché in alcuni casi la fantasia può catturare la ‘vera essenza’ in modo più spirituale. Ciò che congiunge tutto è la mia visione.
Quando si creano opere di questo tipo, non si dovrebbe dare troppa enfasi alla storia o ai fatti. Il significato risiede nella reazione chimica tra la mia visione, estremamente personale, e l’ambiente presentato. Non ho mai avuto l’esigenza di rendere verosimili le immagini che producevo rispetto alla ‘vita’ che si stava realmente svolgendo a Ena.
La staged photography in cui hai coinvolto i tuoi soggetti umani cosa vuole simboleggiare?
Non volevo dare una definizione unica alle persone che ho ritratto, nemmeno nel loro simbolismo. Tracce di umanità si possono trovare in ogni cosa: case, mobili, alberi, tetti, foreste, acqua, tatami, automobili, scale, risaie e altro ancora. Le tracce di umanità, il loro mistero, il mistero del tempo, la sensazione che persino i morti siano presenti nello stesso ambiente e ogni sorta di incertezza e ambiguità: questi sono gli elementi centrali di quest’opera. Nel progetto la coesistenza di vivi e defunti è solo una suggestione, tuttavia, questo rapporto si percepisce vivido nella realtà del villaggio, come anche in molte altre zone rurali del Giappone.
Le scene che ritrai sono anche paradossali, come nell’immagine in cui compare una batteria vicino a una muraglia di massi. Ci racconti come hai lavorato con le persone, con la ricerca delle location e con la messa in scena delle immagini?
Ci sono alcune immagini esemplificative, come quella da te citata. Avevo sentito dire che quella persona la suonava per hobby, quindi gli ho chiesto di portarla sul set. Il luogo non ha alcun legame significativo con la sua vita, ma poiché è un impiegato comunale che conosce molte rovine e cantieri, siamo andati in giro insieme per fare i sopralluoghi delle location e, alla fine, abbiamo scelto quella che appare nella fotografia. La persona nella foto con lui è suo figlio, dettaglio che rende l’immagine un ritratto familiare.
Anche la foto del giovane sdraiato in una sorta di diorama [immagine in apertura di questo articolo, n.d.r.] risponde alla tua domanda. Quell’immagine appartiene interamente alla mia visione creativa, è una sorta di mondo fantastico. La location è all’interno di un’attrazione di un parco divertimenti abbandonato, con cui, il giovane, non ha alcun legame significativo. Ho abbinato la persona e il luogo in base alla mia ispirazione. Mi piaceva il contrasto tra l’ambientazione che ricreava un contesto selvaggio e l’aspetto sofisticato del giovane, che indossava abiti da vita cittadina. Volevo che la fotografia generasse ambiguità e inquietudine e che il ragazzo tenesse qualcosa in mano, quindi ho improvvisato e gli ho fatto tenere il mio quaderno creativo. Il colore blu del muro in questa foto sembra avere un impatto significativo sull’opera nel suo complesso.
Un’altra fotografia che ti porto come esempio è l’immagine di un gruppo attorno al pianoforte. È stata scattata in montagna, nella casa di un’anziana signora che fa parte del gruppo ritratto. Solo alcune delle e persone in questa foto si conoscevano, per la precisione facevano parte di un gruppo di escursionisti casualmente capitati in zona durante lo shooting. Gli altri li avevo coinvolti dopo averli incontrati in giro per Ena, mentre il pianoforte è stato preso in prestito da un residente locale. Questa foto, quindi, è composta da elementi accomunati dal semplice fatto di trovarsi a Ena. Tuttavia, sento che c’è qualcosa, di profondamente spirituale in questa immagine, che trasmette fedelmente l’atmosfera del villaggio e dei suoi abitanti.
Il cielo nuvoloso, nelle foto esterne, appare come un elemento importante della composizione. Che significato ha?
Provo un senso di stupore quando vedo cieli scuri gonfi di pioggia, ma anche sotto il cielo azzurro brillante di mezza estate. Credo che la trasposizione di questa mia sensazione davanti a quel tipo di scenari, particolarmente evidenti in campagna, sia centrale in questo lavoro.
La mia intenzione era quella di incorporare i suoni, gli odori, la temperatura e l’umidità di quei luoghi nelle fotografie. Inoltre, ho cercato di catturare intense emozioni umane, come la passione e l’amore, all’interno di inquadrature statiche.
Ena si compone delle mie suggestioni personali e, visibili o invisibili che siano, le emozioni fanno parte del paesaggio.
Anche la luce dell’intero progetto conferisce alle immagini una patina cupa, nebulosa. Che apporto dà questo tipo di luce alla narrazione del progetto e perché hai scelto di usarla?
La luce fioca non è tanto una scelta, quanto la presa diretta della luce ambientale. Però è anche vero che questo tipo di illuminazione ha l’effetto di far apparire le fotografie più misteriose, trasmettendo una certa ‘sacralità’ di natura più orientale rispetto a quella a cui si fa riferimento nel mondo cristiano. In essa, la natura, le persone, il divino, il mondano, la bellezza, il caos, la passione e la ragione sono tutte componenti indistinguibili e omogenee, esistenti come entità spirituali. Ci sono molte cose nella campagna giapponese senza nome che evocano questa sensazione.
Ena, soprattutto nei ritratti ambientati, acquisisce anche una certa oniricità. Che valore ha la dimensione onirica nel tuo progetto?
Non so se questo lavoro sia collegato propriamente alla dimensione onirica, ma sicuramente si percepisce chiara una certa resistenza a credere solo a ciò che si vede. Attraverso questo progetto, ho imparato che spetta a ciascuno di noi trovare una sorta di spiritualità in ciò che lo circonda, custodendola poi nel proprio cuore.
Ulteriori fotografie e informazioni sul lavoro di Yoshiki Hase sono disponibili sul sito del fotografo yoshikihase.com e sul suo profilo Instagram www.instagram.com/_yoshikihase/.
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