Dal 18 febbraio al 27 aprile il Museo Diocesano di Milano ospita Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo, la mostra di Alessandro Grassani, a cura di Denis Curti. Con questa esposizione il fotografo si sofferma su una conseguenza poco conosciuta del riscaldamento globale che sta investendo sempre più inesorabilmente il nostro pianeta: la migrazione ambientale.
Grassani, che lavora sul campo da molto tempo, ha viaggiato in Kenya, Bangladesh, Mongolia e Haiti per raccontare come, con differenti climi e contesti geografici, molti abitanti di questi Paesi, siano costretti a migrare dalle campagne verso la città per trovare nuove forme di sostentamento. Il fotografo offre una nuova interpretazione dell’immaginario climatico, cogliendo volti e storie di vita e umanizzando una tematica la cui estetica è spesso molto uniforme, incentrata unicamente sulla natura e sul territorio.
“Arriviamo dalla provincia di Bulgan e negli ultimi tre anni abbiamo perso, a causa dello dzud, la metà delle nostre duemila pecore. Ci stiamo avvicinando a Ulaanbaatar in cerca di un posto più mite per far sopravvivere le pecore che ci rimangono. Tutte le mattine, quando ci svegliamo, raccogliamo le pecore morte di stenti durante la notte. Con poco foraggio, l’acqua ghiacciata e temperature che arrivano a -50°, non sappiamo quanto ancora potremmo resistere.”
Dal 18 febbraio il Museo Diocesano di Milano ospiterà la tua mostra Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo. Ce la racconti?
La mostra al Museo Diocesano esporrà una serie di immagini relative al problema dei cambiamenti climatici e più specificamente ai flussi migratori indotti dai cambiamenti climatici. È un lavoro a cui sto ancora lavorando, per ora mi sono concentrato su quattro Paesi (il Kenya, il Bangladesh, la Mongolia e Haiti) con l’intento di raccontare la tematica con uno sguardo globale. I contesti su cui mi focalizzo sono l’ambiente rurale e quello urbano, perché solitamente le migrazioni avvengono dalle campagne alle città.
Perché hai scelto questi quattro Paesi?
Per descrivere quattro contesti geografici e climi differenti: l’estremo freddo della Mongolia, la siccità in Kenya, l’innalzamento del livello del mare in Bangladesh, i cicloni e gli uragani ad Haiti.
Chi sono le persone che fotografi?
Sono pastori, allevatori, contadini e pescatori che, con le loro famiglie, abbandonano il luogo in cui sono nati, per migrare verso i centri urbani. Queste persone pensano alla città come a un luogo in cui vivere una vita migliore, ma si ritrovano comunque a vivere in miseria e il loro sogno viene inesorabilmente infranto.
Infatti, il lavoro da cui nasce la mostra si intitola The Last Illusion. Quando e come nasce l’idea di questo progetto?
Nasce una dozzina di anni fa, durante il mio primo viaggio in Mongolia. Al tempo stavo già indagando il tema dei cambiamenti climatici e la Mongolia mi dava l’opportunità, con il suo inverno estremamente rigido, di pensare ad una narrazione anticonvenzionale. Nel senso che solitamente quando si parla di cambiamenti climatici e di riscaldamento globale si immagina un innalzamento generalizzato delle temperature, ma le cose non vanno così dappertutto e la Mongolia mi dava la possibilità di rendere visibile questa distinzione.
The Last Illusion è iniziato, quindi, con una riflessione sul concetto di immaginario relativo al riscaldamento globale, non solo come indagine sul territorio. Inoltre, ero andato in Mongolia anche perché quell’anno, secondo i dati delle Nazioni Unite, erano morti otto milioni di capi di bestiame durante l’inverno e ventimila pastori erano stati costretti ad abbandonare la loro vita nomade, per rifugiarsi nella capitale, Ulan Bator. In un certo senso, sono andato alla ricerca di quelle ventimila persone nella città in cui avevano sperato di trovare migliori condizioni di vita, cercando di dare loro un volto. Tutto il progetto ha l’intenzione di mostrare fisicamente chi sono i migranti ambientali, coloro che si ritrovano a dover migrare a causa dei cambiamenti climatici.
Quindi l’idea di estendere questa tua ricerca anche agli altri tre successivi capitoli ha preso forma durante il tuo viaggio in Mongolia?
Sì, l’idea di una progettualità a lungo termine e che comprendesse altri territori è nata durante quel primo viaggio. Mentre ero in Mongolia mi sono messo in contatto con un’agenzia delle Nazioni Unite e altre ONG, che mi hanno poi seguito nel progetto, e dalla Mongolia mi sono spostato verso il Bangladesh.
Nella tua narrazione non ti concentri sulla rappresentazione del viaggio di queste persone, ma unicamente sulla loro situazione di partenza nelle campagne o su quella di arrivo nelle città. Quello che manifesta il cambiamento ambientale è quindi il paesaggio dietro di loro…
Parlando di migranti ambientali non esistono delle specifiche rotte migratorie, come ho raccontato, invece, in un mio precedente progetto, attraverso il quale ho seguito i migranti che dal Guatemala arrivano negli Stati Uniti. Per quanto riguarda i migranti ambientali l’idea del viaggio è molto più soggettiva. Dovrei aspettare che una famiglia decida di spostarsi verso la città, non c’è una tratta definita. Dal punto di vista del paesaggio che ho voluto rappresentare, ho realizzato due contesti visivi in parallelo, la campagna e le baraccopoli della città, che si rendono scenario di partenza e di arrivo.
Quello che avviene in mezzo, il viaggio del migrante, non era mio interesse coglierlo. La cosa più importante, che voglio che emerga dal lavoro, sono i volti dei migranti ambientali. Volevo dare un volto a dei dati statistici, a delle storie che altrimenti non sarebbero mai raccontate, ad un tema, quello dei cambiamenti climatici, che altrimenti rimarrebbe focalizzato molto sull’ambiente e sulla natura e non abbastanza sulle persone che soccombono a tale problema. Le Nazioni Unite stesse si sono interessate al mio lavoro proprio perché era in linea con il loro progetto di umanizzare la questione dei cambiamenti climatici.
C’è qualche storia specifica che vorresti condividere con noi?
Parlando del viaggio fatto in Mongolia, ricordo la storia di Ganbaatar Damdisuren, un pastore che aveva abbandonato da un anno e mezzo la campagna perché circa centocinquanta delle sue pecore erano morte per la fame. Aveva, così, deciso di cercare fortuna in città, con al seguito la sua tenda, unico bene rimasto. Cercando un modo alternativo di vita nel contesto urbano, ha comprato una macchina per usarla come taxi, ma dopo una settimana, con un incidente automobilistico, è rimasto paralizzato.
Racconto questa storia per fare capire come la necessità di trovare a tutti i costi nuove forme di sostentamento, in contesti distanti dalle proprie abitudini, porti i migranti ambientali a degli epiloghi drammatici.
Con lui impossibilitato a lavorare, la moglie aveva trovato impiego in una discarica dove differenziava i materiali, per scoprire poi di avere un cancro. La loro è una storia tragica, ma non è la sola con cui sono venuto in contatto.
Come ti approcci ai soggetti per fotografarli?
Con ogni persona, con ogni famiglia, l’approccio cambia, non c’è uno standard. La cosa che ritengo più importante è far comprendere loro il mio intento e il modo in cui voglio portarlo avanti.
Cerco di rendere i miei soggetti partecipi del progetto e per farlo serve molta empatia. Scatto con la consapevolezza che ciascuna storia è un dono che ricevo dalle persone fotografate e per costruire un rapporto intimo e di fiducia trascorro del tempo con loro, lavorando sul campo per mesi.
Come ti relazioni con le persone che fotografi? Sono scatti naturali o sono frutto di tue indicazioni?
Nessuno riceve delle indicazioni, è un vero e proprio reportage. Le immagini raccontano con spontaneità e naturalezza i volti delle persone, colte in momenti della loro quotidianità.
Nelle tue immagini si avverte anche un profondo senso della composizione…
Assolutamente sì. Colgo il momento, ma sto anche molto attento all’aspetto compositivo. L’estetica ha una parte molto rilevante nel mio lavoro come fotografo. Anche per questo motivo, oltre che per creare un rapporto di fiducia con le persone, una mia immagine richiede del tempo.
“Vivevamo nel villaggio di Jainjhar Bajar, sulle rive del fiume Kangsa. Durante una notte di forti piogge, il fiume è diventato violento e furioso, e all’improvviso la nostra casa è stata inondata. Il fiume si è portato via molte delle nostre cose, come gli utensili da cucina. Alla fine, il fiume ha distrutto anche la nostra casa e ha sommerso la nostra terra. Il giorno seguente abbiamo costruito un rifugio di fortuna, ma le piogge non si fermavano e così, in piena notte, abbiamo raccolto quello che ci era rimasto e siamo partiti per Dhaka. Oggi viviamo in questa baracca lungo le rotaie, nello slum di Kawran Bazar. Abbiamo tre figli e mio marito lavora come barbiere ambulante. Con i suoi miseri guadagni, viviamo una vita di stenti.”
Questo tuo senso estetico trae le basi da specifici riferimenti fotografici, da fotografi che ti hanno particolarmente ispirato?
Ora come ora sto traendo molta ispirazioni dalle nuove generazioni di fotografi, dalla loro freschezza e spontaneità. Se ti dovessi fare dei nomi, invece, di fotografi storici che mi hanno particolarmente influenzato ti direi Paolo Pellegrin e James Nachtwey.
Per produrre questo tipo di lavoro immagino che la tua strumentazione debba essere leggera…
Uso sempre e solo due obiettivi, il 35mm o il 24mm. Due ottiche fisse con cui uniformare tutto il lavoro. Mi piacciono le ottiche fisse perché non amo impugnare uno zoom con cui variare in presa diretta l’immagine, trovandomi impreparato davanti al soggetto. In questo modo cerco, probabilmente, di annullare ogni tipo di variabile. Ancora prima di inquadrare il mio soggetto, so i parametri di riferimento di entrambi gli obiettivi, la distanza, la messa a fuoco, il diaframma e soprattutto il risultato finale. Ho bisogno di velocità e di non pensare molto.
“Arrivo dal villaggio di Amagoru, nella provincia del Turkana, una delle zone più aride del Kenya. Io e mio marito avevamo pensato che per noi non ci fosse più speranza in Turkana, avevamo praticamente perso tutte le nostre capre a causa della siccità. Inoltre, gli scontri tribali per il controllo dei pozzi d’acqua e delle terre fertili stavano diventando sempre più sanguinosi: non volevo che i miei figli ne rimanessero coinvolti. Così siamo venuti a vivere nello slum di Kibera, in questa baracca di fango e lamiera. Dopo pochi mesi dal nostro arrivo, mio marito mi ha lasciato per un’altra donna e oggi porto sulle spalle il peso di crescere 6 figli, il più piccolo ha 2 anni e il più grande 13. Io faccio solo lavori occasionali, lavo i panni a domicilio per alcune famiglie che non vivono nella baraccopoli, e i miei figli più grandi si danno da fare andando in giro per la città a raccogliere materiale riciclabile, come bottiglie di plastica e pezzi di metallo, che poi possiamo vendere a peso.”
Alessandro Grassani. Emergenza climatica. Un viaggio ai confini del mondo
- A cura di Denis Curti
- Museo Diocesano, piazza Sant’Eustorgio, 3 – Milano
- dal 18 febbraio al 27 aprile 2025
- mar-dom 10-18
- intero 9 euro, ridotto 7 euro
- chiostrisanteustorgio.it
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