Mauro De Bettio ama viaggiare e fotografare le persone, i loro luoghi e le loro storie. I suoi progetti trasudano dedizione e parlano di un nobile approccio fatto di passi, pause, sguardi e tanta sensibilità. Lo abbiamo intervistato per affacciarci nel suo vivace universo fotografico.
Il tuo sito è uno scrigno di progetti molto accurati e appassionati. Da dove cominci per creare una nuova storia?
Le idee nascono da temi che catturano la mia attenzione e dalla mia curiosità per culture, dogmi e modi di vivere differenti dal mio. I progetti che ho realizzato finora mi hanno portato negli angoli più remoti del pianeta per catturare le emozioni di diversi individui e le loro storie uniche.
Ho esplorato il fragile equilibrio tra le persone e ritraggo la cruda realtà di ambienti come cantieri navali, fabbriche di mattoni, comunità transessuali e bordelli, dove vivono e lavorano bambine e vittime degli attacchi con l’acido.
Realtà durissime che a volte mi hanno buttato giù, ma al contempo mi hanno reso più forte e fiducioso per il futuro. Le emozioni che metto in luce rappresentano la forza e la resistenza di cui l’essere umano è capace, e possono essere una fonte d’ispirazione per tutti noi.
La ricerca di un progetto da raccontare, di una storia inedita, è la parte più importante del mio lavoro. Prima di usare la macchina fotografica mi dedico a lungo allo studio e alla preparazione e trascorro molto tempo nei luoghi e con le persone di cui voglio raccontare la storia.
Niraja è il protagonista di Photographer of Death. Come lo hai conosciuto?
Varanasi, la città sacra in cui è ambientato Photographer of Death (Il fotografo della morte), è un luogo che conosco da tanto tempo, uno dei pochi luoghi che considero come “casa mia”. L’India, con la sua cultura, mi ha influenzato tanto da indurmi a tornarci ogni volta che posso.
Mi affascinano i ghat, le gradinate che dall’abitato scendono fino a dentro le acque del fiume dove i bambini nuotano e giocano, i fedeli lavano i propri peccati e gli indiani cremano i loro morti. E proprio qui, fra le pire funerarie, dove ogni giorno vengono cremate oltre 200 persone, ho conosciuto Niraja. Mi ha colpito talmente tanto vederlo al lavoro che ho deciso di raccontare la sua fantastica storia.
Cosa fa esattamente il “fotografo della morte”?
Niraja ha vent’anni, gestisce uno studio fotografico ed è solito attendere le famiglie durante la processione verso il Kashi Manikarnika Ghat – uno dei luoghi di cremazione più importanti dell’India – per proporre loro di scattare una foto con il caro defunto. Il ghat è aperto tutto l’anno, ventiquattr’ore su ventiquattro, e i numerosi servizi legati alla cerimonia si sono trasformati in una forma di sostentamento per tante persone. Ci sono venditori di legname, barbieri, sacerdoti e anche fotografi, come Niraja. Lui lavora con due fotocamere compatte, entrambe rotte. Con la prima scatta, ma non può visualizzare le foto a causa dello schermo lcd danneggiato, così per vedere le immagini ha bisogno di trasferire la memory card sul secondo corpo macchina che, invece, ha la lente frontale danneggiata.
Quando Niraja ha finito di scattare e la famiglia è soddisfatta delle fotografie, ha inizio la cerimonia di cremazione. Nel corso delle quasi tre ore necessarie perché il corpo si trasformi in cenere il fotografo deve correre il più velocemente possibile per poter raggiungere il laboratorio appena fuori città, stampare le immagini e tornare indietro in tempo per ritrovare i familiari a cui vendere gli scatti.
Un fotografo che fotografa un fotografo, ma con enormi differenze di approccio e di scopo.
Si, lo scopo è certamente diverso, ma sento che ci assomigliamo in molte cose. Conoscerlo e osservare la sua maniera di lavorare mi è servito anche per conoscere me stesso. Ho visto me nella sua maniera di avvicinare con gentilezza e delicatezza le famiglie dei defunti, per convincerle a a essere fotografate insieme al loro caro venuto a mancare.
Per chi non vive nella stessa realtà, il fatto che una persona fotografi i morti per lavoro potrebbe sembrare macabro. Per la cultura indiana, al contrario, morire a Varanasi è la realizzazione di un sogno e corrisponde a un giorno di festa che va celebrato con preghiere, canti e fotografie capaci di custodire la memoria della persona cara che quel giorno sta andando in paradiso.
C’è un tempo necessario per entrare nelle storie e poterle documentare nella loro interezza?
Tutti i miei progetti fotografici sono frutto di un lavoro intenso, che inizia molto prima di metter piede nelle terre lontane dove mi reco. Mi preparo il più possibile sull’argomento che tratterò, cerco dei contatti locali che mi aiuteranno a comunicare con le persone nel caso l’inglese non basti e mi organizzo per poter poi risparmiare tempo sul posto. Tuttavia, l’unico modo per portare a termine progetti come questi è stare a lungo con le persone di cui si vuole raccontare qualcosa. La mia fotocamera è l’occhio attraverso il quale il mondo vedrà la storia che io stesso ho visto, motivo per cui sento sempre l’enorme responsabilità di dover trovare l’approccio giusto.
Quanto conta il colore nel tuo modo di fare fotografia?
Per quanto sia innamorato del bianco e nero, è sempre difficile rinunciare al colore. Più vado avanti e più sento il bisogno di raccontare ed esprimere quello che vedo nella maniera più naturale possibile, cioè restituendo l’istante come appare, come lo vedo nel momento dello scatto.
Ho fatto parecchi lavori in passato in bianco e nero, ma piano piano, col passare degli anni, il colore ha preso il sopravvento. A volte sperimento e lavoro le mie fotografie anche in bianco e nero, e sebbene il risultato sia più artistico ed accattivante per via dei contrasti, dei contorni e delle ombre, ho la sensazione che l’immagine perda la propria carica emotiva e la propria essenza.
Hai sempre accompagnato le tue fotografie con dei racconti che ne arricchissero la lettura?
Credo non esista una mia singola fotografia che non sia accompagnata, come minimo, dal nome della persona ritratta o del luogo dove è stata scattata. L’impatto comunicativo e informativo della fotografia è straordinario e le immagini possono avere un’intensità che raramente le parole possiedono. Per questo cerco, con il massimo della sensibilità e intimità possibile, di immedesimarmi nella scena per catturare una storia con più immagini e meno parole possibili. Ma spesso, ciò che viene fotografato, che sia una persona, un luogo o un oggetto, è solo un frammento di vita e le immagini non bastano. In questi casi è giusto accompagnare l’immagine con un racconto che ne arricchisca il valore.
Obiettivi che la tua fotografia ti ha aiutato a raggiungere.
La fotografia è una cosa che va oltre l’immagine stessa. Rappresenta il mio modo di comunicare la tenacia, la fragilità, la gioia di uno sguardo, l’incredibile determinazione dei fantastici protagonisti che ho la fortuna di incontrare.
La fotografia ha cambiato la mia interiorità, il mio modo di guardare la vita, mi ha aperto la mente, mi ha fatto crescere dentro, ha cambiato le priorità. Sono diventato più sensibile a ciò che mi circonda e alle cose che contano veramente nella vita.
È capitato che le tue immagini diventassero concretamente utili alle persone riprese?
È una domanda che mi regala un sorriso da quanto mi riempie il cuore di gioia. E sono fiero di rispondere di sì! Ho visitato tanti luoghi e persone fantastiche che mi hanno permesso di creare reportage unici. Ma la cosa migliore che abbia mai fatto, e di cui sono più orgoglioso, è successa a Nairobi. Durante uno dei miei viaggi fotografici in Kenya ho avuto l’opportunità di avvicinarmi sempre di più ai bambini di strada di Nairobi e di condividere molto tempo con loro. Mi sono accorto presto che queste anime avevano un estremo bisogno di aiuto e ho deciso di dare vita a quella che oggi si chiama “Fondazione Malaika”. Ci sono tra i 250.000 e i 300.000 bambini che vivono per le strade in tutto il Kenya, più di 60.000 nella capitale Nairobi. Questi bambini sono senza riparo e senza la certezza di avere cibo ogni giorno. In questo momento la Fondazione Malaika è in grado di offrire un pasto settimanale cucinato in casa a oltre 120 bambini ma abbiamo bisogno di più supporto.
Vorremmo infatti aumentare il numero dei bambini a 150 e garantire loro due pasti settimanali. Chiedo ai lettori la grande cortesia di visitare il sito e coloro i quali dovessero decidere di donare anche 1€ sappiano che quel singolo euro farà una grandissima differenza.
Qual è l’attrezzatura che usi e perché?
Cambio attrezzatura molto spesso. Prima di tutto in base al tipo di progetto e quindi alle esigenze, ma anche perché mi ha sempre affascinato ed incuriosito provare e testare diversi corpi macchina, obiettivi, flash e altri accessori. Anni fa, quando ho cominciato con il ritratto ambientato, adoperavo una reflex full frame Canon Eos 5D con obiettivo 35mm. Mi sono poi concentrato su un tipo di ritratto più intimo, ravvicinato, utilizzando una medioformato Phase One con uno o due flash da studio. In quel periodo viaggiavo in Paesi come Etiopia, Kenya e Bangladesh con oltre 40 kg di attrezzatura.
Quando poi ho deciso di viaggiare in Nepal per il progetto sui cacciatori del miele “pazzo”, dovendomi arrampicare su una scala per fotografarli a 100 metri di altezza, ho dovuto cambiare di nuovo l’attrezzatura, optando per un corpo macchina più leggero e veloce, e un obiettivo zoom 16-35mm. Nell’ultimo anno sono tornato alle “mie origini”, ossia il ritratto ambientato. In questo momento sto usando una mirrorless Canon Eos R5 con obiettivi fissi 24mm, 35mm e 85mm.
È importante per te stampare i tuoi lavori?
La foto stampata raggiunge il cuore e serve a testimoniare e documentare. Stampare le mie foto significa dare alle persone che ritraggo la possibilità di vivere. Sono con me tutti i giorni, mi guardano e io guardo loro. Da poco, tra l’altro, è uscito anche il mio libro, 40 SEASONS OF HUMANITY, una raccolta dei miei primi dieci anni di progetti. Anche questo, come le stampe, un ricordo indelebile. Avere le proprie fotografie appese ad una parete o stampate in un libro aiuta a rivivere i momenti fotografati e a non dimenticare.
Difficoltà del mestiere.
Poco tempo fa ho letto, in un post, che la carriera di fotografo di viaggio e fotogiornalista è tra i primi posti nella classifica dei peggiori mestieri. La cosa mi ha fatto riflettere, ma soprattutto sorridere. Sono consapevole che se riesco a fare quello che faccio è soprattutto per il mio modo di comunicare con le persone e della fiducia che queste ripongono in me. Senza questa stima e confidenza sarebbe impossibile portare a casa queste storie. Superata questa importante barriera, però, ci sono tante altre difficoltà da superare.
“Rust and Sweat” (il lavoro sui cantieri navali) e “Building a New World” (il progetto sulle fabbriche di mattoni), per esempio, trattano argomenti ampi e complessi e hanno richiesto una notevole ricerca di informazioni, nonché molto tempo per essere realizzati. Per portarli a termine, infatti, ho viaggiato in quei Paesi per tre volte in tre periodi diversi.
Ho dovuto rinunciare a tantissime cose nella mia vita per arrivare a fare quello che faccio. Sono lontano da casa dai tre ai sei mesi l’anno, tempo che spendo maggiormente alla ricerca e nella realizzazione di storie e progetti. Capita anche che torni a casa dopo tanto senza quasi aver concluso nulla. Spendo tanto tempo e altre risorse, denaro compreso. È un modo di vivere che, probabilmente, riesco a permettermi perché ho uno stile di vita semplice, ma sono felicissimo e fiero di quello che faccio e di come lo faccio.
Bio
Mauro De Bettio è un affermato fotografo che gira il mondo tutto l’anno, senza troppe pretese, illuminando situazioni difficili per portare bellezza. La prospettiva intima del fotografo punta a far emergere l’essenza degli individui che fotografa, nonché la forza e la resilienza dell’umanità. Nato e cresciuto in un piccolo villaggio sulle Alpi italiane, ora residente a Barcellona, De Bettio ha sentito dentro di sé, fin da piccolo, la voglia di raccontare. Presto ha individuato nella fotocamera lo strumento giusto per esprimersi, scoprire il mondo e comunicare con le persone e con la realtà intorno a lui. Per incoraggiare altre persone ad esplorare il mondo attraverso la fotografia l’autore offre, poche volte all’anno, dei tour per piccoli gruppi, in zone remote del Pianeta.
Nel 2021 De Bettio ha dato vita a Malaika, una fondazione nata per aiutare a nutrire i bambini senzatetto di Nairobi, in Kenya.