Francesco Ormando è un giovane fotografo, nato a Roma nel 1988, già molto accreditato sulle copertine delle migliori riviste di moda e di noti settimanali. Cavalcando una carriera indirizzata verso una ricerca estetica che strizza l’occhio al cinema e ai mondi immaginifici, l’autore crea i suoi set con cura, predilige un rapporto diretto ed empatico con i suoi soggetti e ha accumulato una sostanziosa produzione di immagini che non fa distinzioni tra commissionati e progetti più autoriali. Con il tempo Ormando ha plasmato un suo modo di vedere le cose, un personale sguardo sul mondo che esprime con coerenza e convinzione. Lo abbiamo intervistato per immergerci nel suo immaginario visivo, e nel suo percorso fotografico dall’inizio inaspettato.
Come ti sei avvicinato alla fotografia?
Mi sono avvicinato alla fotografia a diciannove anni, per caso. Ho trascorso gli anni del liceo pensando che avrei fatto l’attore o lo scrittore. Non ho mai pensato che mi sarei interessato al mondo delle immagini. Poi sono andato alla mostra di un’amica che aveva iniziato a scattare da poco e ho avuto un’epifania: anche io avevo quella cosa lì. Dovevo solo tirarla fuori.
Nella tua produzione è visibile un’evoluzione estetica e stilistica?
Spero proprio di sì. Ho iniziato a scattare quindici anni fa e nel tempo sono cambiate sia le mie capacità tecniche che il gusto. La base è sempre la stessa: mi piace ricreare atmosfere surreali, prediligo le luci morbide e sono molto attento all’uso dei colori sia in fase di scatto che in post.
Il mio sito, di cui faccio un uso quasi diaristico, è per me un grande archivio che comprende anche le mie prime fotografie e mi consente di rivedere il percorso fatto finora.
Ogni tanto, riguardandolo, mi ricordo le mie origini fotografiche, il lavoro che c’è stato, le sensazioni che vivevo in un dato momento di vita, le paure e i sogni che avevo rispetto a questo mestiere. Lo faccio più o meno una volta l’anno, per prendere le misure di questa evoluzione.
Quello che è effettivamente cambiato molto nel tempo, oltre all’evoluzione del mio stile, è la quantità di risorse a disposizione. Quando ho iniziato mi occupavo di tutto, dal set design alle luci, dai ‘props’ allo styling, mentre ora, se voglio realizzare un progetto, posso contare sull’aiuto di molte più persone e questo cambia molto il risultato.
Oltre ai commissionati, hai una tua produzione più autoriale?
Sì. La maggior parte di quello che pubblico sui miei profili pubblici rientra nella mia produzione personale. I commissionati ci sono, ma ne pubblico alcuni, non tutti. Sul sito non c’è una netta divisione visiva tra gli uni e gli altri: vorrei che la distanza tra le due tipologie fosse minima.
Come definiresti questo stile che ti accompagna sia per i tuoi progetti personali, sia per i commissionati?
È molto difficile assegnare al proprio stile una definizione precisa, usando aggettivi come ‘cinematografico’ o ‘sognante’. Facendolo mi sembra sempre di banalizzare. Non amo la fotografia eccessivamente commerciale e cerco sempre di modulare la luce per avere un risultato naturale, morbido. Se lo ‘schema luce’ è troppo evidente mi sembra che si perda un po’ la magia e si percepisca troppo il lavoro tecnico che c’è dietro. Io ci sono, ma voglio essere invisibile.
Nei tuoi lavori ci sono dei soggetti ricorrenti, come Matilda De Angelis e Leo Gassmann. La consuetudine con i tuoi modelli è un elemento importante della tua produzione? Qual è, in generale, il tuo approccio ai soggetti che ritrai?
È vero, mi piace molto lavorare con le persone che già conosco. Mi aiuta ad entrare più facilmente nel vivo del lavoro e mi sembra che, appena inizi il set, si riprenda il filo di un racconto e di un rapporto iniziato molto tempo prima, che non si esaurisce mai e, anzi, evolve. Sul set solitamente sono io a guidare il soggetto secondo una cornice emotiva prestabilita e se una persona si fida già di me, perché mi conosce, è più facile che comprenda prima quello che cerco, tramite le pose o le espressioni.
Ci racconti un dietro le quinte curioso di qualche set?
Una volta chiesi ad una coppia di amanti di abbracciarsi in una pozza di zolfo semi paludosa. Accettarono. Li feci sdraiare l’uno sull’altro nel mezzo dello stagno. Dopo qualche minuto iniziarono entrambi a fare dei gridolini, perché lo zolfo aveva iniziato a pizzicare un po’ ovunque, soprattutto nelle parti intime. Io ed il mio assistente ci sbrigammo subito a farli uscire e a lavarli, con la buona lena che dedicheresti al tuo cane dopo una giornata nel fango.
La tua fotografia si avvale spesso di ambientazioni esterne, con luci naturali, ma anche di set in cui la staged photography appare più evidente. Come queste due diverse modalità di ripresa influiscono nel tuo pensiero visivo?
Sono cresciuto fotograficamente con la luce naturale e solo nel tempo mi sono avvicinato alla luce artificiale. Ora amo entrambe e capisco pregi e difetti dell’una e dell’altra. Lavorare in esterna mi piace perché c’è la possibilità di muoversi e cambiare energia cambiando il panorama. In studio è più facile andare fuori fuoco, ci sono meno stimoli e input. La luce non è viva e non ti sorprende: nessun raggio di sole che fa capolino per caso, nessun riflesso improvviso. Trovi quello che ci metti tu: se vuoi che qualcosa cambi devi cambiarla tu e dopo tre ore di set, anche la mente più immaginifica perde colpi.
Ci fai l’esempio della produzione di un progetto, dall’idea alla realizzazione?
Nel 2019 lo scrittore Paolo Di Paolo mi ha contattato per realizzare un progetto fotografico che accompagnasse l’uscita del suo romanzo intitolato ‘Una storia quasi solo d’amore’. Mi ha dato carta bianca nel restituire le atmosfere del libro, senza cadere nell’effetto del fotoromanzo. L’ho letto e in tre mesi l’ho realizzato. In quel caso non potevo mostrare accadimenti precisi, ma potevo raccontare come avevo immaginato io quei personaggi e quei luoghi, come se fosse stato il teaser di un film.
Dovendo lavorare con un numero ristretto di immagini, nove o massimo dieci, ho deciso di arginare il problema, trasformando lo spazio di ogni singola foto in una tavola composta a sua volta da altre foto, come se fosse stata la pagina di un album di famiglia. Questo mi ha aiutato molto. Lavorare ai dettagli e unirli mi ha permesso di raggiungere meglio il risultato prestabilito.
Recentemente è scoppiato il caso della copertina del settimanale Sette, a firma di Massimo Sestini, che ritraeva Sofia Goggia con degli evidenti errori di postproduzione. Cosa pensi a riguardo?
Penso che mi dispiace per Sestini, ma può capitare a tutti. Dietro le consegne editoriali o dietro ai lavori commissionati spesso ci sono tempistiche terribilmente veloci. Può capitare una svista, a chiunque. Non assegnerei lettere scarlatte. La velocità non è amica di nessun prodotto di qualità e la fotografia come tutte le arti ha bisogno di tempo, una risorsa che sembra ci scivoli tra le mani molto velocemente nel mondo digitalizzato che viviamo.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Francesco Ormando sono disponibili sul suo sito francescoormando.com.
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