Si dice spesso che i grandi ritrattisti sanno catturare l’anima di una persona con uno scatto fotografico. Ammesso che l’anima umana esista davvero, Cindy Sherman tiene la sua ben stretta e la rende ancora più impenetrabile realizzando autoritratti in cui assume una miriade di identità apparentemente senza fine.
Molti fotografi hanno dedicato la loro intera carriera al ritratto. Ma pochi hanno rivolto l’obiettivo verso sé stessi con continuità, facendo del proprio corpo e del proprio volto i soggetti principali della propria opera. Un nome che viene subito in mente è quello di Francesca Woodman, però la sua scomparsa prematura ha interrotto bruscamente, praticamente sul nascere, la sua ricerca artistica. Molto più consistenti sono invece le produzioni di Yasumasa Morimura e Cindy Sherman. Quasi coetanei (lui nato nel 1951, lei nel 1954), oltre a posare per sé stessi hanno in comune un’abitudine che ne caratterizza fortemente il lavoro. Infatti sia il giapponese, sia l’americana sono soliti travestirsi, usando trucco e costumi per diventare qualcun altro. Ma se da un lato Morimura interpreta personaggi famosi come Frida Kahlo, Vincent van Gogh, Albert Einstein, Marilyn Monroe, Adolf Hitler o i soggetti dei ritratti che hanno fatto la storia della pittura con il chiaro intento di appropriarsi di immagini iconiche come fossero luoghi da occupare con il proprio volto, dall’altro lato Cindy Sherman tende a scomparire nelle proprie fotografie.
Cindy social
Mentre lui è sempre riconoscibile, quasi a voler affermare la propria identità nonostante il travestimento, lei si sottopone a una trasformazione più profonda, abbandonando definitivamente la dimensione del sé per entrare in quella di un possibile altro. Infatti, anche quando non riesce a ingannare l’osservatore e questi ha il sospetto o la certezza che il viso che sta guardando non può appartenere a una persona realmente esistente, ciò succede perché il suo volto diventa una maschera grottesca, talvolta inquietante o quasi non umana. Esempi eclatanti delle sue trasfigurazioni estreme, degne delle visioni più lisergiche di Terry Gilliam, si trovano nel suo profilo Instagram. Ma nonostante sia attiva anche nel social network prevalentemente dedicato alla fotografia, i suoi autoritratti sono per certi aspetti l’antitesi dei selfie.
Generalmente chi scatta un selfie lo fa allo scopo di mostrare come pensa di essere davvero o come vorrebbe essere. Anche quando qualcuno si fotografa in un letto d’ospedale lo fa per rappresentarsi come una vittima o come dotato di un forte spirito combattivo, quindi per attrarre sentimenti di empatia o ammirazione.
Maschera subdola?
Spesso è nei momenti in cui si crede di mostrarsi come si è realmente che si indossa la maschera più subdola, in quanto è invisibile anche agli occhi di chi la porta. Ci si spoglia – letteralmente o metaforicamente – per togliersi di dosso complessi e costrizioni sociali senza rendersi conto che contemporaneamente si indossa un ideale di sé stessi che raramente ha attinenza con la propria vita o la propria personalità. Anche le foto delle vacanze proiettano un’immagine di sé con la quale si cerca di sopprimere le innumerevoli foto che si potrebbero scattare della propria banale quotidianità. Talvolta invece si utilizzano i selfie con lo scopo preciso di propinare a chi li guarda una genuinità studiata a tavolino, come quando i politici in campagna elettorale si fotografano alle sagre di paese o al mercato rionale. In pratica, nella maggior parte dei casi in cui si scatta un selfie si sta recitando la parte di sé stessi, poco importa se lo si fa consapevolmente o no. È per questo che le opere di Cindy Sherman non possono in alcuno modo essere paragonate non solo agli autoritratti condivisi attraverso Instagram, ma nemmeno a quelli propriamente detti che hanno fatto la storia della fotografia.
C'è ma non c'è
L’autrice americana, la cui intera carriera si può ripercorrere in un libro di prossima pubblicazione a complemento della grande retrospettiva appena inaugurata a Londra, basa tutto il suo lavoro sulla recitazione più sfacciata, sull’interpretazione di ruoli che hanno ben poco di autobiografico. Lei stessa ha raccontato in varie interviste che da bambina, essendo la più piccola di cinque figli e con ben nove anni di differenza tra lei e la sorella più giovane, si sentiva isolata dal resto della propria famiglia e quindi si truccava e si travestiva per cercare di farsi accettare assumendo identità alternative. Successivamente, già a partire dal college, ha fatto della recitazione davanti all’obiettivo il perno di una ricerca artistica che l’ha portata non solo a essere una delle fotografe contemporanee più conosciute e studiate, ma anche una delle più quotate: basti pensare che alcune sue opere sono state vendute all’asta per milioni di dollari.
Dal bianco e nero degli Untitled Film Stills ai colori psichedelici di Clowns, dalle atmosfere morbide delle Rear Screen Projections a quelle fantasmagoriche dei Society Portraits, in ogni fotogramma si presenta all’osservatore sotto mentite spoglie. E forse è per rendersi ancora più invisibile, quanto meno dalla prospettiva autoriale, che le sue immagini sono tutte senza titolo. Se è davvero così, se Cindy Sherman si fotografa per non mostrarsi, la sua ricerca raggiunge l’apice con la serie Sex Pictures, in cui si fa rimpiazzare da manichini, protesi e maschere. Allora, con buona pace di chi l’ha definita ‘la regina del selfie’, lei si pone in piena antitesi al genere fotografico più praticato nel ventunesimo secolo e contrappone la maschera e la recitazione al culto della genuinità di facciata, diventando altro da sé per mettere in discussione, come già fecero i padri della psicanalisi, l’idea che chiunque abbia una sola, unica e compatta, identità.
Le fotografie contenute in questo articolo fanno parte della mostra Cindy Sherman
Il catalogo
Titolo Cindy Sherman
Illustrazioni 250
Pagine 256
Prezzo 35 euro