Andrea Graziosi si è sempre interessato a tematiche quali l’animalità, il perturbante, sogni e dimensioni parallele, il rapporto dell’uomo con il selvaggio. Animas, il suo progetto ancora in corso d’opera, lo vede in viaggio per la Barbagia a documentare oltre che le maschere barbaricine, indossate durante il carnevale sardo nell’entroterra della regione, anche qualcosa di meno tangibile, un sentimento primordiale che investe l’intero territorio, sprigionato dai riti atavici della popolazione, dalle loro storie senza tempo, ma anche dalla conformazione antropomorfa della natura circostante. Alberi, massi, tronchi che sembrano testimoni di un tempo remoto, in cui i rituali dell’uomo mettevano l’individuo in stretta connessione con la sua parte animale e oscura. Abbiamo fatto due chiacchiere con Andrea per saperne di più del suo progetto.
Come nasce Animas?
Circa dieci anni fa sentii parlare di alcune tradizioni legate a rituali apotropaici, presenti al centro della Sardegna, in Barbagia nello specifico. Iniziai così ad interessarmi all’argomento portando avanti le prime ricerche. Nel 2011, in Corsica, incontrai Franco Sale, intagliatore delle maschere dei Mamuthones, nonché grande appassionato e conoscitore della cultura barbaricina. Da quel momento mi si aprirono le porte di un mondo meraviglioso. Qualche anno dopo quell’incontro, decisi di partire alla scoperta di quei luoghi e di quelle tradizioni, con l’idea di realizzare, forse, un progetto fotografico.
Una mattina di buon’ora, durante il periodo delle celebrazioni carnevalesche, mi imbattei per la prima volta, tra le viuzze del paese di Ottana, vicino a Nuoro, in un gruppo di Boes e Merdules, le principali maschere ottanesi. La loro apparizione era accompagnata dal fragoroso e ipnotico suono dei campanacci e quello animalesco, stridente, del ‘s’orriu’, una specie di tamburo di sughero ricoperto da pelle d’asino, legato con uno spago che viene tirato con le mani, producendo un lamento cupo, quasi fastidioso. Quei suoni, quelle figure misteriose e potenti, toccarono in me qualcosa di molto profondo. Decisi allora di trasformare quell’emozione atavica in immagini. Fu l’inizio di un lungo viaggio, che dura da molti anni, attraverso un’incessante ricerca antropologica e fotografica fatta di incontri, silenzi, fascinazioni, sorprese, addentrandomi nella Sardegna più profonda.
A cosa riconduce il titolo Animas?
Ero alla ricerca di un titolo che potesse esprimere al meglio l’essenza di questo progetto, e un giorno durante uno degli innumerevoli soggiorni in Barbagia, sentii pronunciare la parola ‘animas’. Chiesi che cosa volesse dire esattamente e mi spiegarono che questo termine viene utilizzato per definire qualcosa che non ha né tempo né corpo, che è inquietante e selvaggio, che è specificamente non umano. Pensai che fosse la parola perfetta per inquadrare il mio progetto.
Quanto c’è di personale in questo tuo progetto?
Sin da piccolo sono ossessionato da una constante ricerca ontologica sulle grandi questioni esistenziali, una sorta di inquietudine dell’animo. Da diversi anni, infatti, i miei progetti sono il risultato di un mio personale pensiero artistico e, parallelamente, anche spirituale. Animas, in un certo senso, è la perfetta esemplificazione di questo mio pensiero. Per citare Antonin Artaud, “L’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione d’un principio trascendente con il quale l’arte ci rimette in comunicazione”. Questo progetto racconta molto di me stesso, del mio rapporto con la spiritualità, della relazione imperscrutabile con il selvaggio. Ho capito con il tempo che quello che fotografo, è, in realtà, la zona d’ombra di me stesso. Con Animas sto realizzando un ritratto della mia anima.
Sin dai primi momenti in Barbagia ho sentito un’incredibile sintonia con la popolazione del luogo, con le loro tradizioni. Animas non è, però, un semplicistico lavoro di catalogazione antropologica, ma è stato pensato da me come un modo per raffigurare, tramite il linguaggio fotografico, la potente ed arcana emozione che provocano le maschere, un sentimento che va oltre la mera teatralità e il folklore.
Nel fare ricerca per il tuo progetto e nel produrre le immagini ti sarai imbattuto in qualche situazione particolare, curiosa. Ce la racconti?
Certo, ne ho vissute molte in tutti questi anni. Forse una della più emozionanti è stata la prima volta che, durante il carnevale sardo, vidi Su Battileddu, la maschera del paese di Lula. Questo personaggio ha il viso sporco di sangue e annerito dalla fuliggine e il corpo ricoperto di pelli di pecora e montone. Sul capo porta due corna fra le quali viene fissato uno stomaco di capra, mentre sulla pancia, sotto i campanacci, uno stomaco di bue riempito di sangue che viene bucato di tanto in tanto.
Durante la processione tutti devono avere il volto segnato dalla fuliggine, i personaggi che sfileranno insieme a Su Battileddu, ma anche il pubblico ai lati della strada.
Con i volti anneriti, come se indossassero loro stessi una maschera, gli spettatori non saranno più semplici testimoni dell’evento, ma parti integranti del rito. Non si tratterà semplicemente, quindi, di uno spettacolo a cui assistere, ma di un’esperienza da vivere.
Fu così anche per me quando mi ritrovai a Lula la prima volta in occasione del rito di Su Battileddu. Ricordo che uno dei Gattias de su Battileddu [uomini vestiti da vedove, N.d.R.] mi si avvicinò, aveva il volto cosparso di fuliggine, lo scialle nero sul capo, lo sguardo profondo, in cui si manifestò tutto il senso di quei culti, e con le sue mani tinse di nero anche il mio volto. Ero nel rito. Poco dopo mi commossi. Quelle lacrime, quella emozione, non appartenevano al presente e neanche al mio passato, erano qualcosa che veniva da molto lontano.
L’alternanza tra il colore e il bianco e nero che apporto ha dato alla tua narrazione?
Sin dagli inizi della mia pratica fotografica, dal mio primo libro Nunc Stans, pubblicato nel 2015, ho sperimentato l’utilizzo del colore alternato al bianco e nero. Le scelte cromatiche delle immagini sono una componente fondamentale della mia ricerca estetica. La luce è vibrazione e materia allo stesso tempo. Con l’uso del bianco e nero congiuntamente a colori monotonali verdastri e bluastri, cerco di portare lo spettatore verso una sorta di stato percettivo che si situa al confine tra realtà e sogno lucido.
Ulteriori informazioni su Andrea Graziosi e i suoi lavori sono disponibili sul sito ufficiale dell’autore andreagraziosi.com.
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