Per la street photographer americana Ruth Orkin ogni angolo di strada era un piccolo palcoscenico.
Nella sua autobiografia mai pubblicata, risalente al 1984 e idealmente intitolata Life With A Camera, Ruth Orkin scrisse che “era un vantaggio essere donna, se non altro per una ragione: gli sconosciuti erano molto meno sospettosi nei miei confronti. Con un sorriso e i miei modi più innocenti o accattivanti potevo conquistarmi la cooperazione di soggetti inizialmente ostili. Potrei non avere avuto il talento nella recitazione che aveva mia madre, ma credo di avere imparato presto ciò che fa la maggior parte della gente che fotografa: bisogna recitare e improvvisare in ogni situazione. Penso che in certe circostanze non si possa dire la verità e restare un fotografo spontaneo. A volte è stato meglio dire che ero una professionista che lavorava per una rivista e in altre situazioni era meglio cercare di passare per una fotografa amatoriale”.
In queste poche parole è riassunto il suo metodo di lavoro, che più che consistere nella maniera in cui Orkin fotografava, si esprimeva nel modo in cui si avvicinava alle persone e nella sensibilità con cui ne catturava i gesti e le espressioni.
La strada verso i grandi
I suoi soggetti non erano semplicemente figure i cui movimenti venivano cristallizzati all’interno delle inquadrature, ma inconsapevoli interpreti di piccole storie contenute in una manciata di fotogrammi. Era talmente forte per lei la connessione tra fotografia e cinema che, oltre a lavorare come fattorina per sei mesi negli studi della Metro-Goldwyn-Mayer, nel 1953 codiresse il film Little Fugitive, un lungometraggio premiato al festival del cinema di Venezia ed elogiato dal regista François Truffaut come fonte di ispirazione per la Nouvelle Vague francese.
La prima storia rubata al cinema che la Orkin riuscì a farsi pubblicare è stata la serie Jimmy Tells A Story, finita sulle pagine del periodico statunitense Look nel 1947 e ripresa con un altro titolo da Life nel 1951. Si trattava di una sequenza in cui un bambino adottava gesti e mimiche facciali molto teatrali per catturare l’attenzione di una piccola platea di suoi coetanei in ascolto mentre egli riassumeva la trama e le scene principali di un film. Il fotoracconto ebbe tanto successo da conquistarsi anche l’apprezzamento di Edward Steichen, allora direttore del dipartimento di fotografia del MoMA di New York, che nel 1955 volle includere un’altra sequenza firmata da Orkin nella celeberrima mostra collettiva The Family Of Man, da lui curata.
Per affiancare gli scatti di Ansel Adams, Irving Penn, Dorothea Lange, Helen Levitt, Elliott Erwitt, Ro-bert Frank, Lisette Model, Edward Weston e decine di altri maestri del Novecento, Steichen scelse la serie intitolata The Card Players, incentrata su tre bambini che giocavano a carte. Tuttavia la sequenza di immagini ancor oggi più celebre che porta la firma di Ruth Orkin è sicuramente American Girl In Italy, del 1951. Ritrae Ninalee Allen Craig, giovane americana recatasi a Firenze per compiere studi nella storia dell’arte, mentre passeggia per la città e attrae su di sé gli sguardi degli uomini di tutte le età.
Di primo acchito la fotografia potrebbe ricordare la famosissima Gli italiani si voltano (1954) di Mario De Biasi, in cui si vede una giovanissima Moira Orfei di spalle attraversare la strada calamitando su di sé l’attenzione di tutti gli astanti di sesso maschile. Ma in realtà il tono dello scatto di Orkin, pur con una buona dose di ironia, è molto meno leggero di quello di De Biasi, in quanto il suo vero scopo era quello di stigmatizzare l’atteggiamento maschilista con cui gli uomini guardavano le donne per strada, spesso lasciandosi andare a quegli apprezzamenti decisamente sopra le righe che oggi vengono definiti con il termine catcalling.
Due fronti
Ruth Orkin fu sempre molto sensibile alle discriminazioni sessuali e alle differenze di trattamento riservate a uomini e donne nella società in cui viveva, e anche nel campo professionale che aveva scelto per guadagnarsi da vivere. Tanto per fare un esempio, la norma consolidata da parte delle agenzie di stampa e delle riviste di pagare i reportage a firma maschile più di quelli a firma femminile. Tuttavia, la sua presa di posizione davanti a questi fenomeni non fu mai di vittimismo, ma di resistenza e consapevolezza del fatto che la propria identità, compresa quella di genere, rappresentava un elemento di forza e unicità anziché una debolezza.
Infatti, sempre nella sopracitata autobiografia si chiedeva: “Le donne vedono in modo diverso dagli uomini? Ovvio che lo facciamo, perché siamo diverse. Ognuno vede in modo diverso da chiunque altro. In parte ciò è dovuto al fatto di essere alti o bassi, oppure al fatto di appartenere o no a una minoranza. Tutte le caratteristiche che formano una persona formano pure la sua visione del mondo, e una delle componenti della propria individualità è il proprio sesso”.
Dunque Ruth Orkin fu impegnata su due fronti, uno sociale e uno professionale: da una parte l’impegno per l’emancipazione femminile, dall’altra la concezione del reportage di strada e del ritratto fotografico come generi assimilabili alle sceneggiature e ai primi piani cinematografici. Vale a dire che per lei la fotografia era un modo per raccontare storie senza usare troppe parole, quasi come se i suoi scatti fossero fotogrammi di film muti. Dai riconoscimenti che ottenne in vita (scomparve nel 1985) si può dire che riuscì a fare sentire la propria voce, forte e chiara.
Le fotografie contenute in questo articolo fanno parte della mostra Ruth Orkin. Leggenda Della Fotografia
Per celebrare i cento anni dalla nascita della fotografa americana è stato pubblicato A Photo Spirit, il libro che ne raccoglie gli scatti più noti e alcuni inediti, e rappresenta un ottimo punto di partenza per riscoprire il lavoro di una street photographer pr la quale ogni angolo di strada era un piccolo palcoscenico.