La maggior parte delle donne sposate nella Corea degli anni Settanta si occupava di tutte le faccende domestiche, vivendo con tre generazioni nella stessa casa. Pulire, lavare i panni e preparare i pasti per la famiglia allargata erano tutte responsabilità della madre.
Ironia, un colore che occhieggia all’arte pop, un’estetica che rasenta il kitsch, ma anche molta tradizione, visiva, culturale e religiosa, legata alla Corea. Sono questi gli elementi distintivi di Nirvana, il lavoro di Daesung Lee, fotografo coreano che nel raccontare la storia della madre, racconta la storia delle donne nel suo Paese di nascita. Un progetto che, nella sua semplicità e leggerezza, porta a galla le contraddizioni della Corea del Sud, crocevia di tradizioni sociali e morali, ma anche di consumismo ed estetiche occidentalizzanti. Abbiamo intervistato Daesung per farci raccontare il suo progetto.
Le didascalie delle fotografie pubblicate in questo articolo sono scritte direttamente dal fotografo.
Come nasce il progetto Nirvana?
Ho lasciato la casa dei miei genitori a diciotto anni e, dopo la laurea, ho vissuto diversi anni in un altro Paese. Alla fine, mi sono stabilito in Francia quindici anni fa. Da adulto, non ho trascorso molto tempo con i miei genitori. Qualche anno fa, un mio caro amico è morto improvvisamente in un incidente. Quella perdita inaspettata mi ha fatto riflettere profondamente sulla morte. Il dolore di un addio così imprevisto è stato travolgente e ho capito che nessuno sa come o quando morirà. Quell’esperienza mi ha fatto desiderare di trascorrere più tempo con i miei genitori, finché sono ancora in salute. A essere onesto, mi sono reso conto di non sapere molto della vita di mia madre. Raramente mi aveva parlato di sé.
Non ho mai visto i veri capelli di mia madre (li ho visti solo in foto prima del suo matrimonio). All’epoca, le donne sposate (chiamate “Ajumma” in coreano) avevano tutte un taglio di capelli quasi identico. Non avevano tempo per prendersi cura di sé, perché erano oberate dalle faccende domestiche dalla mattina presto fino a tarda notte. La permanente corta era la scelta più veloce e più facile da gestire.
In Corea, negli anni ’70, era comune – e prevedibile – che le donne diventassero casalinghe dopo il matrimonio. Le donne di quella generazione erano nate all’epoca della guerra di Corea e molte erano cresciute in condizioni di estrema povertà. Dopo il matrimonio, si facevano carico dell’intero onere dei lavori domestici. Spesso non venivano chiamate per nome, ma con l’appellativo di mogli o madri di qualcuno. A quei tempi, era comune che tre generazioni vivessero sotto lo stesso tetto. Queste donne sopportavano in silenzio discriminazioni e violenze domestiche, si prendevano cura dei suoceri, dei fratelli e delle sorelle del marito e crescevano i figli, il tutto senza lamentarsi. Sono cresciuto osservando le loro vite difficili. Per questo ho deciso di avviare un progetto durante il periodo trascorso con mia madre: qualcosa che avrebbe fatto luce sulla sua vita e, più in generale, sulla vita delle donne della sua generazione.
Perché il titolo Nirvana?
Il Buddismo è profondamente radicato nelle tradizioni culturali di molti Paesi asiatici, che lo si pratichi attivamente o meno. Con il Buddismo si crede che tutti gli esseri connessi tramite il karma si incontreranno di nuovo in un’altra forma nella prossima vita.
Un giorno, per semplice curiosità, chiesi a mia madre che tipo di vita avrebbe voluto vivere se la reincarnazione fosse stata veramente una realtà. Mi rispose con calma che non voleva mai più rinascere.
Arriverà il giorno in cui il legame tra me e mia madre finirà. Sia che ci incontriamo di nuovo nell’aldilà, sia che ci separiamo definitivamente perché lei sarà entrata nel Nirvana, spero che avrà una vita più felice di quella che ha ora… Arrivederci, mamma.
Secondo il Buddismo, la vita è sofferenza e raggiungere il Nirvana – la libertà dal ciclo delle rinascite – significa rompere tutti gli attaccamenti e porre fine al ciclo del samsara (ciclo di vita, morte e rinascita). Mia madre era profondamente esausta di questa vita e non voleva riviverla. Desideravo sinceramente che raggiungesse il Nirvana, proprio come sperava lei, anche se ciò significava che forse non ci saremmo mai più incontrati in un’altra vita.
Come ha reagito tua madre all’idea di posare per il tuo lavoro e di esserne il soggetto?
Mia madre è stata una donna indipendente e volitiva. Negli anni ’80, la Corea del Sud non era ancora un paese ricco e i miei genitori non si poterono permettere un’auto prima dei miei sedici anni. Quando finalmente ne comprarono una, mia madre prese la patente prima di mio padre, cosa piuttosto insolita all’epoca, soprattutto per le donne. Era raro vedere donne guidare a quei tempi.
Quando raccontai a mia madre del progetto che volevo realizzare sulla sua vita, non si sentì in imbarazzo né si preoccupò di come gli altri potessero percepirlo. Credeva semplicemente che la sua vita fosse troppo ordinaria, che non ci fosse nulla di speciale o che valesse la pena condividere.
Nella società coreana, in cui prevalevano le idee confuciane di superiorità maschile e subordinazione femminile, le donne erano considerate inferiori agli uomini.
Ma facendole molte domande, la incoraggiai a parlare di sé. Volevo costruire immagini e storie basate sulle sue parole. Durante la produzione del lavoro finivamo spesso a ridere insieme di cose sciocche, godendoci appieno i momenti che catturavamo. È diventata un’esperienza gioiosa e significativa per entrambi.
Ho iniziato Nirvana l’autunno scorso. All’inizio, ci è voluto un po’ di tempo per adattarci l’uno all’altra. Il progetto è ancora in corso e ho intenzione di continuarlo quest’anno. Ormai anche mia madre si è abituata a farsi fotografare.
Ogni immagine è una messa in scena sulla base di come era considerata la figura della donna in Corea, secondo la tradizione, ma attraverso una resa pop dai colori sgargianti. È anche questo che volevi mettere in rilievo? Il dialogo tra tradizione e occidentalizzazione?
Dopo la guerra di Corea, furono istituite basi militari statunitensi in tutto il paese, e con esse arrivò un afflusso di cultura occidentale. Ciò innescò un periodo di rapida modernizzazione in Corea. Gli stili di vita tradizionali iniziarono a fondersi con nuove influenze, spesso in modi improvvisi e inaspettati. Con il progredire di questa fusione, elementi della cultura occidentale vennero adattati a quella coreana, assumendo talvolta un tono kitsch, e gradualmente entrarono a far parte del tessuto culturale moderno coreano. Oggi la Corea può apparire occidentalizzata esteriormente, ma sotto la superficie è unPaese in cui cristianesimo, cattolicesimo, confucianesimo, buddismo e sciamanesimo continuano a coesistere. Non si tratta solo di residui culturali: rimangono profondamente radicati nella vita quotidiana.
Quando ho detto che volevo studiare fotografia, solo mia nonna e mia madre mi hanno sostenuto. A volte, immagino che tipo di persona sarebbe potuta diventare mia madre se non fosse nata in Corea. Forse mia madre sarebbe potuta diventare un’artista dallo spirito libero.
È un Paese di affascinanti contrasti, un luogo in cui il capo di un’azienda tecnologica globale come Samsung potrebbe ancora chiedere consiglio a uno sciamano. Nel mio lavoro ho voluto mostrare questa complessità stratificata. Per gli allestimenti dei set, mi sono rivolto alla quotidianità che mi circondava: oggetti di plastica dai colori vivaci raccolti a casa dei miei genitori e gli iconici abiti a stampa floreale spesso indossati dalle nonne in campagna. Nella cultura dell’Asia orientale, il rosso e l’oro sono colori tradizionalmente associati a ricchezza e prosperità.
Per rappresentare il consumismo e, contemporaneamente, la fede spirituale, ho incorporato amuleti sciamanici, molti dei quali sono ora prodotti in serie e venduti a circa un euro l’uno. Alcuni di questi riferimenti culturali potrebbero non essere immediatamente leggibili per gli spettatori occidentali, ma anche se i dettagli non vengono pienamente compresi, la narrazione può comunque risuonare attraverso lo stile visivo.
“Se fossi stata una farfalla in un sogno, sarei semplicemente volata via da questa vita” dice mia madre. Quando la vita diventava troppo difficile, a volte, desiderava che fosse solo un sogno.
In che modo l’ironia si inserisce nel tuo progetto?
L’elemento dell’ironia era presente in modo tangibile nelle conversazioni tra donne dell’epoca. Quando si riunivano, condividevano le storie delle loro difficoltà, spesso alleviando lo stress della vita quotidiana con autoironia e battute leggere.
Credo che gli italiani abbiano una profonda comprensione del potere narrativo dell’ironia.
La vita è bella di Roberto Benigni ne è un perfetto esempio. Il modo in cui il film mantiene positività e umorismo anche in mezzo alla sofferenza – ironicamente – lo rende ancora più straziante.
È questo contrasto di elementi che conferisce alla storia la sua vera forza emotiva. Mi trovo anche attratto dall’ironica e paradossale miscela di commedia e tragedia dei film di Emir Kusturica. La sua opera mi tocca profondamente, in particolare l’uso del kitsch, il linguaggio visivo crudo e grezzo e il caos visivo.
“Mamma, cosa sono queste scarpe trasparenti?”. “Oh, quelle? Sono le scarpe da pediluvio. Quando ho i piedi freddi, le indosso e le riempio di acqua calda”. Mia madre mi ha partorito a casa, non in ospedale. Non ha ricevuto cure adeguate e non ha avuto tempo per riposare. Racconta spesso che qualcosa doveva essere andato storto, perché da allora ha sempre avuto i piedi freddi.
“Mamma, spero che nella tua prossima vita non dovrai cambiare questi bellissimi capelli”.
Ci sono dei fotografi a cui ti sei ispirata per produrre questo lavoro?
Sono sempre più attratto dall’approccio teatrale in fotografia, tanto da aver avuto una forte influenza anche sul mio lavoro documentaristico. Non è la prima volta che lo sperimento, ma in passato era solo uno dei tanti elementi di un corpus di lavori più ampio. Questa volta, tuttavia, la messa in scena ha preso il sopravvento, diventando una caratteristica distintiva del progetto.
A un certo punto mi sono sentito più attratto da opere che racchiudono la propria storia in un’unica immagine, piuttosto che affidarmi alla sequenza per costruire una narrazione.
Ammiro da tempo artisti come Sandy Skoglund e Bernard Faucon. Sono affascinato dal tipo di magia che si crea quando ambientazioni reali vengono trasformate in spazi surreali e illusori attraverso la messa in scena teatrale. C’è qualcosa di affascinante nel confine labile tra realtà e finzione.
Ulteriori informazioni sul lavoro di Daesung Lee sono disponibili sul sito del fotografo, daesunglee.com.
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