Alla Galleria Patricia Armocida di Milano sono esposte, fino al 27 giugno, quasi duecento fotografie prodotte da Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, raccolte nella mostra Doppia Uso Singola. Sono immagini che parlano di solitudine, di una palpabile sensazione di desolazione e alienazione, racchiusa nelle stanze d’albergo, nelle case della nonna e della zia, nelle architetture incompiute della Sicilia. L’esposizione, infatti, si compone di tre differenti progetti, creati secondo una produzione diaristica delle immagini: D.U.S. (Doppia uso singola), Teresa e Anna e Giorni Sfiniti. Colapesce coglie la malinconia di questi luoghi, ma non senza un lieve sarcasmo del paradosso. Come nelle sue canzoni, anche nelle sue immagini l’ironia risuona come un elemento fondamentale, persino in distese infinite di desolante umanità.
Ci siamo fatti raccontare da Lorenzo che significato ha la sua pratica fotografica, anche in relazione alla sua attività musicale.
Come la fotografia si inserisce nella tua quotidianità?
Durante l’adolescenza ho fatto un corso di fotografia analogica. Lì ho appreso le prime nozioni e poi è stata una passione che mi sono trascinato lungo il resto della mia vita. Il mio lavoro è un altro, ma attraverso la fotografia mi piace raccontare il mio quotidiano, con un valore quasi diaristico.
Le fotografie le fai con il telefono o con una macchina fotografica?
Quelle raccolte nella mostra Doppia Uso Singola sono state prodotte, nell’arco di quasi tredici anni, solo attraverso la fotocamera del telefono. Non le ho mai fatte pensando ad una progettualità, né tanto meno all’idea di poterle esporre. Erano più che altro una memoria personale.
A cosa si riferisce il titolo della mostra, Doppia Uso Singola?
Con l’acronimo D.U.S. (Doppia uso singola) avevo raccolto una serie di immagini sul mio profilo Instagram. Le fotografie di quel progetto mostrano le camere d’albergo dove vado quando sono in tour, i loro dettagli, il loro senso di solitudine. Il titolo si riferisce proprio alla desolazione degli spazi, ma anche della persona da sola che occupa una stanza doppia. Per l’appunto, doppia uso singola.
Però la mostra, che riprende questo titolo, racchiude anche le due serie Teresa e Anna e Giorni Sfiniti. Perché?
Quando abbiamo iniziato a riflettere sulla mostra mi è piaciuta l’idea di decontestualizzare il senso di D.U.S. usandolo come significato dell’intera esposizione. Volevo che la mostra fosse intesa come un macro racconto sulla gestione della solitudine.
Ci racconti meglio Teresa e Anna e Giorni Sfiniti?
Teresa è mia nonna, Anna sua sorella, la mia prozia. Anche loro vivono in due case che seguono la filosofia della “doppia uso singola”, essendo entrambe vedove. Le loro abitazioni si trovano una di fronte all’altra e la cosa curiosa è che comprano più o meno le stesse cose, oggetti, vestiti o qualunque altra cosa. Non lo fanno consapevolmente e se glielo fai notare si arrabbiano molto, rivendicando la propria indipendenza e originalità. In mostra abbiamo ricreato appositamente un allestimento a specchio che riconduce all’abitazione di mia nonna e a quella della mia prozia, per sottolinearne la specularità. Ognuno trova il proprio modo per vivere la solitudine.
Giorni Sfiniti è invece una riflessione sull’incompiuto siciliano. Mi interessava raccontare una Sicilia meno stereotipata, quella dei paradossi. In un certo senso le mie immagini di questa serie sono delle astrazioni. Ad esempio, c’è una parte dedicata alle muffe, alla loro estetica e, parallelamente, al loro essere metafora di degrado e desolazione.
Il concetto di desolazione che vuoi trasmettere tramite la mostra si manifesta soprattutto negli oggetti. Perché?
A parte mia nonna e sua sorella, che si manifestano più per la loro monumentalità che per la loro umanità, effettivamente, non compaiono persone nelle mie immagini. Come dicevo prima, con quelle fotografie ho voluto raccontare un concetto di ‘quotidiano’; fotografando gli oggetti io cerco di coglierne anche la personalità, come gli alberghi che sembrano depressi.
Quindi a te interessava la personificazione dell’oggetto…
Sì, assolutamente. La cassaforte logora, i letti sfatti, gli oggetti di arredo consumati. Quelle di D.U.S. infatti sembrano stanze stanche di essere stanze.
Il tuo stile fa riflettere anche sull’atto del guardare, sul concetto di prospettiva, richiamandosi a una certa tradizione fotografica. Hai dei riferimenti della cultura fotografica a cui sei particolarmente interessato?
Sì, devo dire che il mio è un modo di fotografare ormai codificato che, senza voler disturbare grandi maestri come Ghirri, trae comunque suggestione da quella tradizione fotografica, dall’“estetica del banale” di quei grandi fotografi che, negli anni Settanta, furono una voce fuori dal coro. Però il mio lavoro è più istintivo, non vuole avere la loro specificità di pensiero.
E come fruitore quali sono i fotografi che ti piacciono?
Ci sono i classici come Ghirri, ma anche quelli della tradizione più fotoreportagistica come Gianni Berengo Gardin. Ultimamente, poi, ho comprato il libro del regista Yorgos Lanthimos, pubblicato da MACK, che trovo stupendo. Inoltre, mi piace molto l’estetica di Beat Presser, fotografo di scena che ha seguito spesso la produzione cinematografica di Werner Herzog, uno dei miei registi preferiti. O anche Nobuyoshi Araki o Gregory Crewdson.
Quanta sicilianità hai voluto rappresentare in questi lavori?
Un siciliano la propria sicilianità se la porta sempre con sé sempre. È un modo di essere.
Il formato delle fotografie in mostra, 20x20 o 10x10, l’avete pensato ricollegandovi alla dimensione delle “cementine”, maioliche che compongono la classica pavimentazione siciliana…
Le fotografie le avevo già impostate con formato quadrato e mi piacciono molto le dimensioni piccole, quindi ci è sembrata divertente l’idea di associarle a quell’immaginario siciliano.
Come avete lavorato per la selezione delle immagini?
Con Patricia Armocida siamo partiti da un corpus di immagini di quasi duemila fotografie. Abbiamo fatto una scelta cromatica, estetica e narrativa anche in base all’allestimento. Per arrivare a quasi duecento fotografie. Essendo poi delle immagini diaristiche assumono senso tutte insieme, non singolarmente.
A posteriori mi sono accorto che ci sono dei colori che tornano spesso.
Ad esempio?
Sfumature che vanno dal bianco al grigio o tortora. Penso che, inconsciamente, li ho estrapolati dai colori della casa dove sono cresciuto.
Quel senso di desolazione e sospensione di cui si caricano le tue fotografie ha delle assonanze con la tua produzione musicale?
Io penso che in generale la fotografia abbia, dal punto di vista compositivo, delle affinità con la musica. Semplificando, entrambi i linguaggi sono il risultato di fasi di produzione che messe insieme creano l’opera. In musica, ad esempio, l’architettura del testo è importantissima, come lo è anche la parte di mixaggio; così in fotografia è importante la prospettiva con cui viene ritratto il soggetto, che entra in relazione con lo spazio, ma è altrettanto importante anche la modalità con cui viene scattata l’immagine, se sovraesposta o sottoesposta ad esempio. In base a questi dettagli cambia il senso. E anche la fase della post produzione crea significato. Per questo motivo percepisco la produzione fotografica e quella musicale in un rapporto di risonanza.
E dal punto di vista narrativo?
Sicuramente c’è una correlazione anche da questo punto di vista. Ricordati che Sciascia, relativamente alla Sicilia, parlava di ‘isolitudine’, quella vena malinconica degli isolani, quel loro sentirsi ‘abbandonati’ ed estranei al resto, un concetto che probabilmente è stato introiettato sia nelle canzoni che nelle fotografie. Chiaramente sui testi delle canzoni ci lavoro per molto tempo, ci rifletto, perché d’altronde è anche il mio lavoro, mentre le fotografie sono il risultato di un processo istintivo e ‘di pancia’.
Colapesce. Doppia Uso Singola
- Galleria Patricia Armocida, via Filippo Argelati, 24 – Milano
- dal 16 maggio al 27 giugno 2025
- mar-sab 11.30-19
- ingresso gratuito
- galleriapatriciaarmocida.com
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