C’è
un modo di dire piuttosto noto e apparentemente leggero: “quando
una bottiglia di latte entra in un museo, questa diventa un’opera
d’arte”. È un aforisma in cui innanzitutto
è facile ravvisare un tono polemico nei confronti dell’arte
contemporanea, talmente aperta alla varietà di mezzi
espressivi resi disponibili dal progresso in epoca moderna
da accettare come manifestazione artistica pressoché
ogni cosa. In realtà nasconde molto altro. Intanto
si potrebbe ben pensare che non ogni bottiglia di latte è
un’opera d’arte, ma solo quella che qualcuno ha
voluto far entrare nel museo, ovvero si potrebbe leggere un’allusione,
se possibile ancor più polemica, ai processi che definiscono
non tanto l’arte quanto gli artisti; ma ne riparleremo
in futuro. Il valore principale della frase sta nel mettere
a nudo il problema della demarcazione del confine tra l’opera
artistica e ciò che non lo è. Credo proprio
che la questione in generale sia antica, non quanto l’uomo,
ma quasi. In tempi recenti l’interrogativo si è
fatto più scottante e la sua “temperatura”
è aumentata proporzionalmente al numero dei mercanti
entrati nel tempio. La fotografia è uno dei campi in
cui la risposta è più difficile da trovare a
causa della natura del mezzo, ovvero per la capacità
della fotocamera di riprodurre fedelmente la realtà.
Se mi passate il paragone semplicistico, e fuor di polemica,
nelle arti figurative classiche una secchiata di vernice o
uno sgarro su una tela possono assurgere al rango di opera
d’arte perché è innegabile (per insufficienza
di prove contrarie) che si tratti di interpretazioni, di manifestazioni
di pensiero creativo. In fotografia, la fedeltà nella
riproduzione della realtà che con un minimo sforzo
si può ottenere, tanto più in era digitale,
ha obbligato a tentare una classificazione, una separazione
tra fotografia semplice e fotografia artistica. E non è
mera questione da salotto. L’appartenenza di una fotografia
a una o all’altra categoria incide non poco sui diritti
dell’autore. La legge principale sull’argomento,
la 633 del 1941, ha quasi settant’anni, ma se è
riuscita con le innumerevoli modifiche che l’hanno portata
ai giorni nostri a definire i diritti dell’autore, non
è riuscita a stabilire con altrettanta precisione quando
questi diritti sono realmente esercitabili. Prova ne siano
la giurisprudenza non sempre concorde e la fiorente letteratura
sull’argomento. Il fatto è che se già
all’articolo 1 si dichiarano protette le opere dell’ingegno
creativo, manca il criterio per stabilire dove l’ingegno
creativo sia assente, sempre che sia possibile definire il
concetto di ingegno creativo. Ad esempio, è negata
la presenza di creatività quando la fotografia è
la mera rappresentazione della realtà. Quanto questo
criterio sia limitato e limitante è palese. Proviamo,
per gioco, ad applicarlo proprio alla pittura: glielo dite
voi agli iperrealisti che non sono artisti? O ai vedutisti
che nel XVIII secolo dipingevano delle fedelissime “cartoline”
su tela da riportare in patria come souvenir? E tornando alla
fotografia, chi se la sente di smantellare la mostra di Basilico
al palazzo delle Esposizioni a Roma?
La fotografia è frutto di un doppio processo. Da una
parte quello ottico/meccanico/chimico/elettronico; dall’altro
quello intellettuale, che prende forma nel modo di utilizzare
l’apparecchio, a sua volta influenzato dalla cultura,
dall’intuito, dalla capacità di previsualizzazione.
Parte della dottrina ha sfruttato questa separazione dell’atto
genetico della fotografia indicando come elemento distintivo
dell’opera artistica la presenza del moto creativo nel
processo intellettuale, cioè nell’attimo che
precede lo scatto. Ma in questo modo si cristallizza la fotografia
e se ne definisce il valore al solo momento dello scatto,
lasciando fuori ciò che oggi non può più
essere disgiunto dalla fotografia creativa, ovvero il fotoritocco,
inteso anche nella sua più delicata accezione di ottimizzazione
dell’immagine.
Si è pensato di attribuire il rango di opera alle fotografie
dove si possano rinvenire segni tangibili della fantasia del
fotografo, ingegno che prende forma nella scelta degli accostamenti
cromatici, nell’inquadratura, nel tempismo o nel taglio
dello scatto. Eppure, opere d’arte fotografica universalmente
riconosciute possono essere prive di questi elementi. Al contrario,
si è negato il valore artistico a immagini in cui la
scelta delle luci e dei soggetti non è del fotografo
ma di altri, ad esempio la fotografia ai concerti; d’altro
canto lo si è dato alla foto di una chiesa resa diversa
dalla presenza, sullo sfondo, dei fuochi d’artificio.
Come è stato saggiamente da più parti suggerito,
il seme della creatività va cercato nel pensiero, nell’intenzione
che ha mosso lo scatto, la ricerca, il reportage o un’intera
carriera. Il pensiero, inteso come motore puro, non ha un
inizio né una fine, prescinde dalla tecnica, dalla
cultura, è alla portata di tutti, è molto democratico…
È un criterio probabilmente più etereo, complesso,
indefinibile, sfuggente e di difficile applicazione rispetto
a tutti quelli proposti dagli studiosi che hanno avuto l’ingrato
compito di codificare l’arte, fotografia compresa. Ma
è l’unico in grado di spiegare la grandezza di
certe opere e l’invariabile stupore che suscitano. |