Una
brutta foto, scattata con la Polaroid e un flash a combustione,
domina la prima pagina del Messaggero. In basso, quasi al
limite del fotogramma, c’è il mezzobusto di un
uomo in camicia, un volto dall’aria più mesta
che inquieta, e una frezza bianca tra i capelli scompigliati.
Alle sue spalle, vero protagonista dell’immagine, pende
un drappo scuro con la stella a cinque punte e la sigla spigolosa
delle Brigate Rosse. È il 18 marzo del 1978. Due mesi
più tardi un’altra foto, presa col tele da una
finestra del primo piano, mostra una Renault col portellone
alzato. Nel bagagliaio c’è uomo raggomitolato,
e tutto attorno è un brulicare di politici e gente
in divisa. L’uomo è sempre quello della Polaroid,
anche se adesso giace cadavere. Ha una coperta addosso, e
qualcuno ne ha scostato un lembo per scoprigli il viso.
Sono passati trent’anni esatti dal sequestro di Aldo
Moro, ma la memoria visiva dei suoi cinquantacinque giorni
è ancora compendiata in quei due scatti: l’istantanea
fatta al volo nella “prigione del popolo” per
rivendicare un’azione di lotta armata e il bianconero
carpito per amore di cronaca in un’atmosfera da stato
d’assedio; la “prova di esistenza in vita”,
successivamente usata dal regista Renzo Martinelli per un’ammirevole
ricostruzione “filologica” nel film Piazza delle
Cinque Lune, e lo scoop giornalistico che ha proiettato Gianni
Giansanti verso una sfavillante carriera di fotoreporter.
Ma a cosa si deve tanta potenza, tanta accumulazione di significato?
Non è sufficiente appellarsi alla sola forza delle
immagini, e nemmeno all’uso reiterato che delle stesse
immagini hanno fatto nel tempo i mezzi di informazione, per
spiegare l’assunzione di certe fotografie a icone di
un’epoca e il loro saldo piazzamento nella trama del
ricordo collettivo. Indubbiamente, nel caso Moro, conta moltissimo
la valenza storica dei fatti, che segnarono uno dei maggiori
crocevia della vicenda politico-istituzionale italiana: la
percezione dell’evento nodale, del passaggio culminante,
del giro di boa, ha senz’altro contribuito a trasformare
una grave crisi dello Stato e una profonda tragedia umana
in un ciclo epico nazionale di cui le fotografie sono diventate
puntelli iconografici. Gli Stati Uniti ci erano passati quindici
anni prima con l’assassinio di John Kennedy. E infatti
la mitologizzazione del caso JFK passa anche attraverso i
fotogrammi del Super 8 di Abraham Zapruder, la meticolosa
topografia del “set” di Dallas in cui si consumò
la sparatoria, la “danza di morte” di Oswald colpito
a freddo dai proiettili di Jack Ruby davanti agli obiettivi
dei cronisti.
Ma c’è dell’altro. Trent’anni fa
in Italia, qualche lustro prima in America, la civiltà
delle immagini viveva la sua fulgida adolescenza. Il trionfo
del rotocalco, la TV a colori, la crescita della comunicazione
commerciale fornivano alle immagini veicoli di diffusione
e casse di risonanza enormi, cavalcando una sensibilità
già sviluppata nei riguardi delle tematiche sociali,
e addirittura scavalcandola nel senso di un consumo mediatico
di massa. D’altra parte era ancora lontana l’era
del consumismo sistematico globale, che riversa le immagini
stesse in un flusso ininterrotto di informazioni multimediali
dove tutto tende a ridursi a puro segno: l’icona, all’epoca,
aveva i mezzi per approdare ma anche il tempo di attecchire,
senza essere immediatamente travolta da nuove ondate di stimoli
visivi. Fu la grande stagione delle emittenti private, dei
giochi elettronici e dei cartoni animati giapponesi, ma anche
dei Gianni Giansanti, dei Rolando Fava, degli Uliano Lucas,
dei Dino Fracchia, dei Tano D’Amico.
Oggi il bombardamento è continuo, tutto viene documentato
in tempo reale e al tempo stesso le immagini si svuotano di
senso. Il crollo delle Twin Towers, fra vent’anni, non
sarà legato a una potente foto simbolo ma resterà
scomposto in un’inflazione di riprese video che non
favoriranno l’aggregazione del ricordo. Intanto il documento
ha preso a sfumare nell’elaborazione grafica, e il reportage
ha ceduto gradualmente il passo al flash d’agenzia,
all’interpretazione estetizzante, alla produzione d’autore.
Eppure le immagini vincitrici dell’ultimo World Press,
che vi presentiamo qualche pagina più avanti, sembrano
accennare a una ripresa di quota per il fotogiornalismo mondiale.
E fra le maglie del digitale sembra lentamente emergere una
nuova esigenza di verità.
Forse un nuovo cambio di stagione è alle porte. |