In
questo numero di FOTO Cult vi presentiamo ben due reflex con
monitor orientabile (caratteristica che fino a ieri era prerogativa
delle compatte), e una di esse – come vedrete –
istiga all’uso del Live View con la pervicacia di un
rinnegato. A pagina 14 un distinto signore di Ivrea ci chiede
di intraprendere una politica di assistenza per i tanti fotoamatori
coi capelli grigi, che rischierebbero di restare in panne
per la loro scarsa familiarità con i programmi di fotoelaborazione.
Mio padre vorrebbe comprarsi una digitale, ma dice che anche
la più elementare delle tascabili ha un profilo tecnico
troppo complicato, e appena riesce a chiarirsi un minimo le
idee il modello su cui ha messo gli occhi va magicamente fuori
produzione. Intanto i cellulari salgono a 5 megapixel, da
Cambridge esce un software di ridimensionamento “intelligente”
che rimpicciolisce solo le parti meno importanti dell’immagine,
e c’è sempre più gente che riscopre la
Holga o il foro stenopeico. Che cosa sta succedendo? Niente
di straordinario. È solo il terremoto digitale che
continua a farci ballare con le sue scosse di assestamento.
La rivoluzione tecnologica ha, infatti, rotto tutte le barriere
e ha finito per stravolgere ogni consuetudine, dal modo in
cui si inquadra alla quantità di foto che si scattano
in un anno, dal rapporto fisico con l’immagine ai livelli
e alle modalità di condivisione, dalla longevità
commerciale di ogni singolo apparecchio alla percezione della
stessa fotocamera come valore d’uso, tanto da indurre
una parte del pubblico ad atteggiamenti di reazione. Inoltre
ha sovvertito i codici: se dieci anni fa chi masticava di
tecnica in campo fotografico parlava di grana, latitudine
di posa, fedeltà cromatica, acutanza, contrasto, difetto
di reciprocità, oggi si parla piuttosto di risoluzione,
gamma dinamica, disturbo, aliasing, rumore termico, artefatti
di compressione.
Certezze incrollabili come il rapporto matematico fisso tra
focale nominale e angolo di campo sono andati (o così
sembra) a farsi benedire, e chi si appresta allo scatto deve
ormai saper padroneggiare parametri insoliti come il bilanciamento
del bianco o il livello di qualità Jpeg.
Noi, come la maggior parte dei fotografi professionisti, siamo
riusciti a tenere il passo aggiornandoci a tappe forzate,
e i più giovani semplicemente non avvertono il problema
in quanto sono nati nell’alveo del nuovo fiume; ma i
fotoamatori maturi, che giustamente non vorrebbero rimanere
ai margini, vivono spesso il cambiamento come l’irruzione
di una realtà aliena, e guardano al nuovo ordine con
l’incomprensione di un Guareschi nei confronti dei “giovani
d’oggi”.
Ora io credo che questo disagio non vada liquidato come un
fenomeno di residualità, ma valorizzato come una preziosa
testimonianza, perché ci aiuta a decifrare il segno
dei tempi e sollecita una riflessione: il confronto analogico/digitale
non è riducibile a una questione di qualità,
come molti hanno creduto all’inizio, ma pone importanti
questioni di merito. Penso in particolare al valore intrinseco
dello scatto. Nella fotografia su pellicola il fotografo si
fa ministro di un processo fisico basato sulle proprietà
naturali dell’alogenuro d’argento, materializza
una visione della realtà che ha avuto in maniera diretta,
custodisce a lungo un’immagine latente, e nel frattempo
assapora il clic appena eseguito come affermazione rituale
della propria interazione con il mondo. Nella ripresa digitale,
invece, il fotografo attiva un processo artificiale di scomposizione,
trasduzione e codifica dell’immagine, la quale resta
in ogni caso virtuale; se sfrutta il monitor per l’inquadratura
instaura per giunta un rapporto mediato con la realtà,
limitandosi a registrare quella che è già una
rappresentazione della scena, e il prodotto dello scatto si
svuota di ogni investimento psicologico in quanto l’immagine
può essere rivista subito ed eventualmente cancellata.
Mi astengo da ogni giudizio di valore, ma è evidente
che simili mutazioni di approccio hanno implicazioni culturali
importanti, influenzando soprattutto la considerazione che
fotografo e fruitore hanno del mezzo fotografico e la dignità
che ad esso viene attribuita.
In un bel film di Tim Hunter (The Saint of Fort Washington,
1993), Matt Dillon si aggira fra i senzatetto di New York
scattando fotografie con una vecchia Kodak senza rullino.
A Cartier-Bresson “capitava” di fotografare senza
macchina fotografica. Quello spirito andrebbe in qualche modo
salvaguardato. |