Dove
passa il treno che porta verso una carriera fotografica luminosa?
Difficile dare una sola risposta, ma la pubblicazione su una
rivista famosa è tra le stazioni dove ferma più
spesso. Di questo dovevano essere convinti gli autori delle
oltre diecimila stampe inviate alla sede romana del National
Geographic Italia, del gruppo L’Espresso. L’occasione
era costituita dalla seconda edizione del concorso fotografico
indetto dal gruppo editoriale per promuovere la propria testata
(beh, perché tanto stupore? credevate servisse a diffondere
la passione per la fotografia?). Tre le sezioni ove misurarsi
con una singola immagine: paesaggio, persone e animali. Per
il reportage era consentito l’invio di un massimo di
dieci stampe. Stampe, sì, ma nessuna preclusione alle
fotocamere digitali, purché l’intervento al computer
(che riguarda anche negativi o diapositive scansionati in
vista della stampa) non andasse oltre una leggera correzione
di colore, contrasto o esposizione. Insomma, niente doppie
esposizioni, fotomontaggi o ritocchi di sorta. Tra le condizioni
più stringenti, infine, la verginità della fotografia:
al di là dell’autore, nessuno, neanche su internet,
doveva aver tratto godimento dalla contemplazione dell’opera
candidata al prestigioso premio. Premio, per inciso, consistente
in un corso di fotografia da seguire in quel di Milano.
Fin qui le premesse. Le conclusioni: un disastro, a giudicare
da quanto è possibile ascoltare nei gruppi di fotografi
o leggere in rete, almeno dove non è arrivato il cancellino
elettronico dei diretti interessati, promotori del concorso
e fotografo. È successo che la fotografia premiata
in prima istanza per la categoria paesaggio, autore Walter
Lo Cascio, un giovane siciliano dal portfolio evidentemente
orientato al fotoritocco, si è scoperto essere macchiata
da due peccati considerati gravissimi. Intanto, non era inedita.
Non sembra sia passata per i tipi di qualche testata, ma di
certo era finita sugli schermi di migliaia di utenti di vari
forum di fotografia. E poi, a quanto pare, era frutto di un
abile ritocco in postproduzione. Per molti navigatori il confine
della liceità segnato nel bando di concorso è
stato abbondantemente superato, essendo il cielo pittoresco
- che sovrasta una campagna dorata e un altrettanto luminoso
casale - molto poco coerente con la luce presente nel resto
della scena e somigliante in modo sospetto ad altri visibili
nelle opere del fotografo isolano.
Potenza del web come strumento di democrazia diretta: nel
giro di poche ore dalla pubblicazione dei vincitori, l’organizzazione
del concorso è stata sommersa da una valanga di contestazioni
e si è vista costretta, stante anche l’ammissione
di colpa del fotografo - almeno per quel che concerne le precedenti
pubblicazioni su internet - a escludere la fotografia e ad
assegnare il premio ad altra opera. Questo incidente ha provocato
diversi feriti non gravi: nell’ordine, l’autorevolezza
della testata (montepremi inadeguato al nome e conseguente
disinteresse dei professionisti o dei più bravi in
genere), dei singoli giurati (caduti nelle rete del fotografo),
e la reputazione del fotografo stesso (linciato virtualmente
sulla rete). Se mi sforzo di cercare giustificazioni assolvo
subito i giurati perché non credo abbiano avuto molti
capolavori tra cui scegliere e perché una stampa, per
uno strano meccanismo psicologico, sembra più “vera”
di una foto osservata a monitor e rende meno evidente il fotoritocco;
inoltre non si può pretendere che tutti passino ore
a navigare nei forum a caccia dei soliti furbetti. Quindi
giustifico meno il fotografo perché il bando era di
una chiarezza esemplare. Infine non giustifico affatto l’organizzazione
del concorso perché nel 2007 è a dir poco anacronistico
sbarrare l’ingresso al fotoritocco. Il fotografo moderno
non sa e non può prescindere dall’uso del computer.
Anche solo per sviluppare un file RAW è costretto ad
applicare alcune correzioni che rischiano di fargli varcare
il confine del lecito. La soluzione al problema è di
una semplicità tanto disarmante che mi fa sospettare
della buona fede o delle capacità di chi si ostina
a sposare modelli antiquati e inapplicabili alla fotografia
moderna. Basterebbe vietare l’elaborazione solo all’interno
della categoria reportage, il genere di fotografia documentale
per eccellenza, quello che chiede all’osservatore di
credere a ciò che vede. Via libera alla fantasia e
al buon gusto altrove, senza distinzione di supporto originario
e di processi di elaborazione intermedi. Non credo che creare
categorie dedicate sia proficuo: immaginiamo una sezione dai
contorni sfumati dedicata alle fotografie migliorate al computer,
per l’appunto, su contrasto, colore, nitidezza ed esposizione.
Non sono concettualmente simili alle stampe in camera oscura
con sapiente uso di mascherature, bruciature o filtri di contrasto?
Supponiamo, addirittura, per non lasciar nulla affidato all’autocertificazione
del fotografo, una sezione generica, dedicata a tutto ciò
che non sia una stampa da originale analogico o da file JPG
creato in macchina e non passato per alcun programma di fotoritocco.
Ho la vaga sensazione che alle altre categorie resterebbero
solo gli spiccioli. Smentisca chi può. |