Ai
primi di maggio, in occasione dell’annuale Congresso
Nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche
(FIAF), ho avuto l’onore di partecipare come relatore
a un seminario dedicato ai nuovi orizzonti e alle nuove tendenze
della fotografia. La discussione, com’era ovvio attendersi
in questo periodo di transizione tecnologica, si è
dapprima incentrata sulla diatriba tra fotografia analogica
e digitale, orientando la platea verso l’una o l’altra
sponda e stimolando per giunta la sentita testimonianza di
Gianni Berengo Gardin, presente in platea e legato alla pellicola
da ben due gloriose Leica M appese al collo. Tutto bene, finché
un partecipante non si è alzato in piedi dichiarandosi
deluso dal fatto che lo scambio di idee si fosse arenato su
questioni meramente tecnologiche, tradendo l’attesa
di un confronto maggiormente volto all’analisi delle
tendenze estetiche e culturali della fotografia. Tra me e
me ho pensato che se la discussione era andata avanti così
per oltre un’ora, in fondo l’argomento non era
poi tanto noioso. Ma poco dopo mi sono trovato a dargli ragione,
ho trovato illuminante sia il suo intervento sia quello di
molti altri fotografi presenti, usciti allo scoperto uno per
volta, tutti per manifestare un senso di disorientamento al
cospetto della nuova fotografia. Così si è passati
a discorrere del perché si dovrebbe accettare una foto
sfocata, con l’orizzonte storto, con colori improbabili,
ritoccata al computer, quindi con “vizi” formali.
E poi a denunciare una certa fotografia con contenuti ritenuti
osceni, con soggetti ripresi in atti di autolesionismo, dietro
sbarre o in luoghi angusti, in atteggiamenti di palese rifiuto
di se stessi e della società che li ospita; una fotografia,
a sentire i commenti, con “vizi” sostanziali.
Di fronte a queste nuove forme di fotografia, che noi stessi
in redazione tocchiamo con mano quotidianamente e che sinceramente
non sempre apprezziamo, molti fotografi tradizionali, con
un’identità formatasi uno o più decenni
fa, faticano a rimanere lucidi, si lanciano in invettive o,
peggio, si chiudono nell’indifferenza. Dimenticano che
la fotografia è un linguaggio e che si evolve in quanto
tale. Si evolve la nostra lingua per stare al passo con la
società. Vogliamo forse che non si evolva la fotografia,
che di questa società è il più efficace
messaggero? È fin troppo scontato citare correnti artistiche
come quella impressionista, dapprima disprezzata, oggi osannata.
E così è sempre stato, dalla scultura all’architettura,
dalla musica alla poesia. Esistono uomini che con il loro
genio, con la loro sensibilità e la loro capacità
di sintesi, sanno innovare, riuscendo ad esprimere concetti
a tutti noti, sensazioni da tutti provate, sentimenti da tutti
vissuti, in modo rivoluzionario. Cito Dante perché
fresco e intenso è il ricordo dello spettacolare Benigni,
uno che sa far riflettere: il sommo poeta, per primo, riesce
nella nuova lingua italiana a evocare immagini così
tangibili, a instillare sentimenti così cristallini,
a comunicare concetti così nitidi da lasciare stupefatti.
Certo, la grandezza del poeta toscano è stata tale
che ad oggi può ben dirsi insuperata. E, purtroppo,
tornando alla poesia per immagini, non mi pare di poter scorgere
un novello Dante tra i fotografi di oggi. Ciò nonostante,
le fotografie moderne, digitali o analogiche che siano, sono
espressione del nuovo linguaggio fotografico e come tali vanno
valutate. Insomma, occhi e cuore aperti alle novità
e nessun pregiudizio. Problema risolto? Niente affatto. Definire
la fotografia semplicemente un linguaggio non può bastare.
Ogni linguaggio rispetta un codice fatto di regole senza le
quali non è compreso. Passatemi i semplici esempi che
seguono: se io dico “mare” in corretto italiano
chiunque nello Stivale capisce di cosa parlo. Così,
se io fotografo il mare correttamente, cioè rispettando
le regole formali della messa a fuoco, dell’esposizione
e della composizione, altrettanto sicuramente nella mia fotografia
tutti vedranno il mare, e solo quello. Iniziamo a cambiare
le regole: se io dico “mare” con fare sognante
potrei far nascere un desiderio di evasione. Se fotografo
il mare infrangendo le regole formali della “dizione”,
ad esempio utilizzando un tempo lento, potrei annichilire
l’osservatore evocando in lui un pensiero di eterno
movimento. Sono esercizi di stile, facilmente riproducibili
e soprattutto assai poco sorprendenti. Ma se un giorno qualcuno
dovesse pronunciare la parola “mare” distorcendone
il suono cosa accadrebbe? Forse non verrebbe compreso del
tutto e sicuramente non da tutti, ma se da quella infrazione
totale e consapevole delle regole dovesse scaturire un suono
gradevole oltre che nuovo, non saremmo di fronte a un nuovo
genio della parola? Ugualmente fotografando il mare in modo
davvero originale (non so come, altrimenti l’avrei già
fatto) scaverei, è vero, un solco enorme tra il mio
pensiero e quello che la mia fotografia genera nell’osservatore,
ma se dovessi riuscire a sorprenderlo avrei fatto della mia
fotografia un’arte. La fotografia è un linguaggio
nel senso stretto del termine solo quando è canonica,
ma non chiedetele di essere innovativa. La fotografia è
poesia quando rompe gli schemi, quando stupisce, quando noi
stessi, con sana invidia, avremmo voluto trovare quelle parole
o, meglio, quella visione per comunicare in modo altrettanto
sublime. Ciò accade quando l’immagine, attraversato
il vuoto normativo che separa fotografo e osservatore, genera
in questo un sentimento nuovo e positivo. È il segreto
del successo nell’arte e, per fortuna, anche per questo
non ci sono regole. |